La nebbia che avvolge Ilaria e Miran - Nigrizia
Politica e Società Somalia
Alpi-Hrovatin: a 30 anni dal duplice omicidio di Mogadiscio
La nebbia che avvolge Ilaria e Miran
Sulla morte dei due giornalisti, avvenuta il 20 marzo 1994 in Somalia, si sa quasi tutto. Ma a causa dei depistaggi e dei “fiaschi” giudiziari non si è riusciti a dare un nome e un cognome agli autori e ai mandanti
19 Marzo 2024
Articolo di Luciano Scalettari
Tempo di lettura 7 minuti
(Credit: Movimento Rete)

Una sintesi di questo articolo è uscita nella sezione “Africa 54” della rivista Nigrizia di marzo 2024.

Chi l’avrebbe mai detto che 30 anni dopo sul caso Alpi-Hrovatin saremmo stati ancora a questo punto? Nessuna verità giudiziaria, nessun risultato investigativo sugli esecutori materiali, buio pesto sui mandanti, indagini di fatto ferme da anni e anni. Non solo. Un condannato per concorso nel duplice omicidio, dichiarato poi, in sede di revisione del processo (dopo oltre 17 anni di ingiusta reclusione) innocente e totalmente estraneo ai fatti: uno dei peggiori casi di malagiustizia del nostro paese.

Oggi sappiamo quasi tutto sul movente, ossia sulle ragioni per cui due giornalisti italiani il 20 marzo 1994 sono stati giustiziati in un agguato a Mogadiscio, nella capitale somala. Sappiamo su cosa indagava Ilaria Alpi, a quali uomini e istituzioni aveva dato fastidio, conosciamo le dimensioni del malaffare italo-somalo, le tangenti, i traffici illegali di armi, quelli di rifiuti tossici e/o radioattivi. Sappiamo anche quanto è lunga la scia di morte che ha preceduto e seguito l’uccisione di Ilaria e Miran.

Conosciamo pure l’entità e la gravità dei depistaggi messi in atto perché non si arrivasse mai alla verità giudiziaria su quel caso: occultamenti di prove e creazione di false prove, anche da parte di esponenti delle istituzioni italiane, come pure di faccendieri nostrani e di oscuri personaggi somali.

Quante volte si è usata l’espressione “porto delle nebbie” a proposito della Procura di Roma… Nel caso dell’inchiesta sul duplice omicidio di Mogadiscio l’espressione è quanto mai calzante e azzeccata. Raramente si è visto un fiasco così totale, dal punto di vista giudiziario, come in questa vicenda.

E, come se non bastasse, sul caso Alpi-Hrovatin ci è messo pure il parlamento: raramente si è visto un fiasco di tali proporzioni di una Commissione d’Inchiesta come quella presieduta dall’allora onorevole Carlo Taormina, la cui relazione finale è stata smentita clamorosamente pezzo a pezzo dai fatti, oggi ampiamente noti, comprese le bufale più eclatanti come il recupero della presunta auto sulla quale viaggiavano Ilaria e Miran al momento dell’agguato: presunta, appunto, perché l’auto non è quella, ma sulla falsa Toyota la Commissione parlamentare ha costruito una pseudo verità secondo la quale i due giornalisti non avevano scoperto nulla ed erano stati uccisi in un tentativo di rapina o rapimento finito male.

È stata depistante o depistata, la Commissione? Difficile a dirsi, forse entrambe le cose. Di sicuro il teorema costruito dalla Relazione finale di maggioranza anziché avvicinarsi alla verità, l’ha decisamente allontanata.

È difficile ripercorrere in poche righe una storia di inchieste – più giornalistiche che giudiziarie evidentemente – tanto lunga. Difficile riferire in dettaglio delle anomalie che hanno caratterizzato questa vicenda fin dai primi minuti dopo l’agguato omicida: i soccorsi che non arrivano, le carte che scompaiono prima ancora che le salme dei due giornalisti giungano in Italia, il girato di Miran che viene sottratto e di cui si perdono le tracce per oltre un mese, l’autopsia non fatta sul corpo di Ilaria Alpi, il mancato sequestro dei documenti della giornalista sia da casa sua che dalla sua postazione in RAI, l’omesso controllo del suo computer.

E poi ancora l’inerzia totale dei primi mesi di indagine, e l’avocazione, da parte del capo della Procura di Roma, dell’inchiesta dalle mani del primo magistrato che finalmente si mette a indagare: quel cambio di rotta nelle indagini ha comportato l’abbandono delle piste promettenti per imboccare quella che ha portato a condannare un innocente.

Difficile riferire in poche battute anche delle anomalie che precedono l’omicidio: il breve sequestro dei due giornalisti il giorno 16 marzo per impedire che prendessero l’aereo dalla città di Bosaso, dove si erano recati solo due giorni prima; il mancato accertamento delle ragioni che avevano portato i due inviati a lasciare Mogadiscio per recarsi in quella remota città del nord-est della Somalia; il mistero di chi li preleva dall’aeroporto di Mogadiscio per riportarli all’albergo (un aeroporto militarizzato, dove vengono registrati tutti gli ingressi e le uscite); la telefonata del 20 marzo che li attira nella trappola mortale dell’agguato: Ilaria e Miran, in quell’assolato pomeriggio, appena tornati al proprio albergo (il Sahafi), vengono fatti andare in fretta e furia a un altro hotel (l’Amana), che si trova oltre la green line (la linea verde) che divide la città nelle due parti controllate ciascuna da uno dei signori della guerra di Mogadiscio, il generale Aidid e Ali Mahdi; arrivano ma non trovano nessuno e niente ad attenderli se non il commando che li insegue e li uccide a poche decine di metri dall’albergo.

Sarebbero talmente tanti gli elementi da raccontare…

Il caso Alpi-Hrovatin è di quelli che fanno indignare, che fanno perdere fiducia nelle istituzioni del nostro paese. Fra tutti, l’episodio più terribile è quello che ha portato ingiustamente in prigione un innocente per 17 anni, Hashi Omar Hassan, uno sfortunato giovane (allora) somalo sacrificato agli interessi di chi doveva mettere a tacere i genitori di Ilaria che chiedevano giustizia, dandogli in pasto un finto colpevole (e tuttavia Giorgio e Luciana Alpi alla colpevolezza di Hashi non hanno mai creduto).

Per ottenere questo miserabile risultato si sono comprati testimoni, ribaltate verità processuali, ignorate prove a discarico. Si è preso un ragazzo di poco più di 20 anni e lo si è sbattuto in carcere; ne è uscito a 40 e passa, con tante scuse, una sentenza che lo definisce “capro espiatorio” vittima di una raffinata operazione di depistaggio e un risarcimento di oltre 3 milioni di euro, pagati col denaro dei contribuenti italiani.

Un atroce destino, poi, ha fatto sì che Hashi, il 6 luglio 2022 venisse a sua volta ucciso da una bomba posta nella sua auto, anche lui a Mogadiscio. Un assassinio che prolunga la scia di sangue iniziata con l’omicidio di Ilaria e Miran o motivato da altre ragioni? Nessuno lo ha indagato, tanto per cambiare.

È vecchio di tre decenni, l’omicidio di Ilaria e Miran del 20 marzo 1994, ma quanto mai attuale: l’inchiesta giudiziaria, alla Procura di Roma, formalmente è ancora aperta, e attendiamo ancora i risultati della serie di indagini richieste dai Gip nel respingere ben due richieste di archiviazione, indagini di cui non si sa nulla, nemmeno se gli atti investigativi sono stati realizzati o quantomeno tentati.

È un anniversario amaro, questo. Oggi, 30 anni dopo, i genitori di Ilaria Alpi sono mancati, come pure sono morti molti dei testimoni e delle persone che a vario titolo potevano sapere o che hanno contribuito a depistare. La vicenda scivola nel silenzio, esattamente come avevano sperato che accadesse i responsabili della morte dei due giornalisti.

I poveri Ilaria e Miran avevano davvero messo il ditino in un ingranaggio pazzesco e gigantesco: quei traffici erano “affare di Stato”, anzi “affare di Stati” perché mettevano in gioco non solo l’Italia e la misera Somalia, non solo la politica, ma anche la geopolitica, tanto per il business dei rifiuti quanto per quello delle armi.

Oggi c’è ampia documentazione sui traffici messi in atto da e per il paese africano, basta andare a vedere i rapporti delle Nazioni Unite (che ben pochi conoscono) per comprendere l’estrema rilevanza internazionale delle questioni su cui si era messa a indagare Ilaria.

Il duplice omicidio Alpi-Hrovatin si avvia a essere l’ennesimo caso senza verità giudiziaria, senza colpevoli, senza mandanti, come il caso Moro, come le bombe della strategia della tensione, come tanti atti di terrorismo, come gli attentati sui treni, come gli eccidi di Falcone, Borsellino e delle rispettive scorte, come Ustica, come la vera posta in gioco delle bombe di mafia del 1992 e 1993.

Di tutte queste vicende sappiamo molto, moltissimo, ma non c’è verità giudiziaria. E senza quella non c’è verità definitiva. C’è la nebbia dei “probabilmente”, del “non può essere che”, del “cui prodest”, che però non bastano a disvelare fino in fondo il verminaio che sarebbe emerso accertando movente e colpevoli.

Si sono scomodati magistrati, ambasciatori, uomini dei servizi segreti, militari, agenti di Gladio e anche faccendieri, trafficanti, mentitori di professione, tutti impegnati allo spasimo per far passare il tempo, così tanto tempo che Ilaria e Miran sono diventati un vago vecchio episodio di cui accennare a scuola, intitolare con una targa qualche via o piazza, ricordare nel giorno dell’anniversario.

Già, anche scrivere queste righe in occasione del trentennale è, in un certo senso, dare ragione a loro, ai depistatori, convinti che non è sempre vero che il tempo è galantuomo. Talvolta, invece, fa scendere la nebbia, sempre più fitta. Così nessuno vede più nulla, e lentamente sbiadisce anche il ricordo.

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