Sull’Africa serve una “narrazione della speranza” - Nigrizia
Politica e Società
Intervista a Moky Makura, direttrice esecutiva di Africa No Filter
Sull’Africa serve una “narrazione della speranza”
Sovvertire gli stereotipi di un continente di cui si parla solo in termini di miseria, guerre, corruzione e malattie si può. Ce lo conferma la direttrice di ANF, incontrata al Festival internazionale del giornalismo a Perugia, che ci ha spiegato cos’è il “giornalismo delle soluzioni”
23 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Moky Makura (Credit: screenshot Youtube)

Cambiare la narrativa sull’Africa – quella perennemente concentrata su conflitti, corruzione, povertà, malattie – non è una missione impossibile. È questione di metodo, di attenzione, di serietà professionale e persino di curiosità, quella che consente di guardare oltre e guardare altro.

Un metodo che da quattro anni sta applicando Africa No Filter (ANF), nata con un chiaro obiettivo: rappresentare la dinamicità e la varietà del continente al di là dei consolidati stereotipi e cliché con cui questo è stato (e continua ad essere) rappresentato.

Al Festival internazionale del giornalismo di Perugia, giunto quest’anno alla XVIII edizione, abbiamo intervistato Moky Makura, direttrice esecutiva di ANF, invitata a tenere un panel dal tema Africa: esplorare nuovi modi di informare.

E allora, Moky, quali sono – o dovrebbero essere – questi nuovi modi?

Raccontare più storie sull’Africa, inquadrarle meglio, esaminarne e presentarne la complessità. E poi: redazioni in cui vengano rappresentate le diversità e siano presenti più giovani; dare maggiore spazio al “solutions journalism”, vale a dire quel giornalismo che indaga e spiega, in modo critico e chiaro, come le persone cercano di risolvere problemi ampiamente condivisi.

Inoltre, è necessario un tipo di racconto che parli di speranza, alimenti la speranza. Tecnicamente abbiamo bisogno di long stories, certo, ma anche di articoli brevi, e dell’uso di differenti formati. Ma soprattutto, e questa è la sintesi, abbiamo bisogno di un giornalismo che con sincerità faccia la differenza nel modo di presentare le storie.

Africa No Filter è nato quattro anni fa. Che impatto ha avuto e sta avendo? Credi che questo progetto abbia fatto la differenza?

Credo che la rappresentazione dell’Africa sia migliorata negli ultimi anni, non voglio dire che è dovuto interamente al nostro lavoro ma è così che sta andando. Credo che ci sia più consapevolezza nei giornalisti e ci sono più giornalisti africani sul campo, nelle redazioni, che incidono sulle scelte e sui modi di raccontare le storie.

C’è una nuova generazione di giovani giornalisti che fanno esperienza dell’Africa e la vivono in un modo differente dal passato, dove anche la musica, il cibo, l’arte, i film sono oggetto di attenzione. Insomma, un nuovo approccio del giornalismo allo storytelling.

Le cattive notizie esistono ed esiste una narrazione che le esalta ma tra queste ce ne sono altre, migliori. E trovo comunque che anche le “bad news” si stiano raccontando in un modo diverso.

Come lettrice, in percentuale, quante bad news ti capita di leggere riguardo al continente africano e quante che riguardano storie belle, di cultura, di arte per esempio?

Devo dire che nei media globali ancora il 70% delle notizie pubblicate sono bad news, intendo notizie che mettono in primo piano i problemi dell’Africa. Solo il 30% rappresenta il resto. Ma ogni paese ha problemi e aree dove le cose non vanno bene.

Per quel che riguarda l’Africa la questione è il focus costante su cosa non va, sulle cattive notizie, appunto. Se costantemente si racconta alle persone cosa non funziona, corruzione, povertà conflitti, malattie, ci si convince che quella è l’unica realtà. Ecco perché c’è bisogno di cambiare non solo il focus ma anche come raccontiamo le storie.

È per questo che credo che il “solution journalism” sia la risposta per quanto riguarda il modo di rappresentare l’Africa. Abbiamo tante sfide, certo. Abbiamo dittatori, certo, la corruzione, sì, ed è parte del ruolo dei media raccontare queste cose ma tutto questo non rappresenta la società intera, bisogna raccontare anche il resto, la ricchezza di quello che accade e costituisce le società africane.

In alcuni paesi africani regimi autoritari rendono difficile esercitare la libertà di stampa, è difficile portare a galla quelle bad news su cui sembra concentrarsi la stampa occidentale o fare inchieste per timore di ripercussioni.

Questo è vero. In questi casi sono essenziali la cooperazione e le partnership tra colleghi o progetti giornalistici. Ci sono storie che i giornalisti locali non possono raccontare per questioni di sicurezza, per proteggersi, ecco perché in alcuni casi è importante che lo facciano pubblicazioni estere che lavorano con giornalisti del posto e quando la storia è venuta fuori, a quel punto può essere coperta a livello locale.

Ma, ancora una volta, ricordiamo che questo non riguarda e non accade solo in Africa. Comunque, proprio in quei paesi dove ci sono difficoltà economiche, politiche, c’è bisogno di elementi più positivi. Cosa può funzionare davvero, anche in situazioni e condizioni difficili, è la speranza, perché se non c’è speranza non c’è neanche cambiamento.

La libertà di stampa in alcuni paesi è un problema è vero, ma penso anche che di questa libertà non si dovrebbe abusare. Mi spiego: siccome puoi coprire qualunque cosa perché scegliere sempre e solo quello che va male rispetto a quello che funziona? Anche i giornalisti africani dovrebbero raccontare non solo una porzione di quello che accade.

Parliamo di un altro stereotipo, quello che riguarda le migrazioni e i migranti…

Il numero di africani che vengono in Europa è minuscolo, assolutamente microscopico paragonato al numero di africani che rimangono in Africa. Io combatto anche contro questa narrativa, che è sbagliata.

La migrazione è una questione globale e magari la gente non sa che in realtà la maggioranza dei migranti nel mondo non sono africani, sono asiatici. Inoltre la migrazione più forte è quella all’interno del continente. Il Kenya, ad esempio, è uno dei maggiori paesi al mondo che ospita migranti.

Quando si pensa ai migranti si presuppone sempre che gli africani vogliano scappare dai loro paesi. Non è così. Molti nigeriani non ottengono un visto regolare per entrare in Italia solo perché siamo stereotipati. Capisco che i paesi abbiano bisogno di proteggere i loro confini ma considerare tutti come potenziali migranti in fuga non è giusto.

Ti racconto un fatto recente come esempio: uno dei miei colleghi ha ricevuto una prestigiosa borsa di studio per trascorre un mese in un’istituzione culturale italiana. Quest’uomo ha un buon lavoro in Nigeria, aveva un invito dell’organizzazione, ma gli è stato rifiutato il visto e così non ha potuto partecipare alla “residency”.

Penso che queste cose siano un problema, il mondo è sempre più globalizzato, tante decisioni, tante cose importanti che accadono nel mondo non possono restare chiuse in una stanza, tutti devono esserne partecipi e beneficiari. Va bene proteggere i confini ma non bloccate chiunque, non usate stereotipi nei nostri confronti.

Ci sono leader africani che con le loro politiche e atteggiamenti non aiutano a guardare l’Africa sotto altri aspetti, anzi alimentano i pregiudizi.

Sì, bisogna riflettere su quanto noi contribuiamo all’immagine negativa del continente. Oltretutto molte delle notizie a livello globale riguardano la politica e i nostri leader. Ho scritto un pezzo proprio su questo, African leaders behaving badly (I leader africani si comportano male). La verità è che sì, sono responsabili di molti degli articoli e narrazione negativa riguardante il continente.

Però non possiamo rappresentare un intero paese attraverso il suo leader. È come definire l’America attraverso le azioni di Trump e dire che gli americani sono tutti pazzi. Ecco perché è importante il tipo di storytelling, sono importanti narrazioni con maggiori sfumature.

La Nigeria non è Bola Tinubu. Ci sono le persone, la loro vita e i loro sforzi quotidiani. Persone che hanno aspirazioni. Raccontare solo i leader, ciò che li riguarda, la politica, rappresenta solo un decimo dell’intera storia.

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