
Nella foto in alto i manifestanti scesi in piazza ad Addis Abeba mercoledì 22 aprile per protestare contro l’uccisione da parte dell’Isis in Libia dei 28 cittadini cristiani etiopi. (Fonte: AlJazeera)
La decapitazione per mano dei militanti dell’Isis sulle coste della Libia di una trentina di persone per il solo fatto di essere cristiani, avvenuta la settimana scorsa, ha suscitato sdegno e cordoglio nel mondo intero. Man mano che passano i giorni, emergono le identità, e alcune storie, dei giovani assassinati così barbaramente e la pietas, nel senso più profondo del termine, si aggiunge allo sbigottimento. Parecchi, ormai, sono stati riconosciuti attraverso le immagini diffuse dal sedicente Stato islamico (Isis) stessa con il solito video, agghiacciante come un rito sadico, e allo stesso tempo proprio per questo propagandistico.
Nel gruppo, dapprima creduto costituito tutto da etiopi, almeno otto erano eritrei. Alcuni erano stati deportati da Israele verso l’Uganda, per via di un programma di espulsione dei profughi africani concordato con alcuni governi disponibili, e da lì avevano ripreso la strada verso l’Europa, nonostante i rischi e le crescenti difficoltà.
Morti eritrei e “mercificazione”
I siti internet, in tigrino, della diaspora eritrea in questi giorni rimandano le loro storie e le loro immagini, mentre il governo, secondo le stesse fonti, riterrebbe che l’odio dell’Isis verso i cristiani del Corno d’Africa sia dovuto alle interferenze etiopiche nella guerra ad Al Shabaab in Somalia e, conoscendo il giro di pensiero del regime, la cosa è del tutto plausibile. Si è messa in atto, dunque, la “mercificazione” anti-etiopica di una tragedia che non è solo individuale, ma eminentemente politica.
Di politica interna: quanti giovani eritrei hanno trovato la morte per fuggire da un paese percepito come una prigione in cui non c’è futuro? E cosa intende fare il governo che ne è responsabile? E di politica internazionale globale: un assassinio a sangue freddo, come tanti altri in altri paesi del Medio Oriente, infiammati da errori clamorosi nella politica internazionale dei paesi occidentali negli ultimi decenni, di cui pagano il prezzo, per ora, le popolazioni locali e che si sta pericolosamente avvicinando alla porta di casa.
Cordoglio etiope
Diverso il cordoglio per i morti etiopi. Due erano amici, ed erano partiti insieme da Cherkos, un quartiere povero di Addis Abeba. Lì le famiglie, incredule e disperate, hanno potuto esprimere il loro dolore erigendo una tenda, nella strada adiacente la casa da cui i giovani erano partiti. Vi si terrà, come da tradizione, la veglia funebre, un dovere sociale profondamente sentito (e negato ai morti eritrei) che coinvolgerà tutta la comunità per parecchi giorni. Le immagini diffuse dalle reti televisive che, a differenza delle nostre, informano sui fatti del mondo (Al Jazeera ha trasmesso lunghi servizi sul caso), mostrano le madri annichilite dal dolore: il loro lutto durerà a lungo e inizierà con 40 giorni in cui la disperazione sarà visibile nel loro stesso comportamento: capelli coperti, pochissimo cibo cucinato da una parente, pavimento come giaciglio. Probabilmente l’intera famiglia si era privata del necessario per pagare il viaggio al figlio più in gamba, perché potesse avere un lavoro e un reddito, per contribuire al mantenimento dei fratelli più piccoli a casa e alla promozione dell’intera famiglia. Storie di ordinaria emigrazione e di normali e legittimi sogni di un futuro migliore.
Un colpo alla convivenza pacifica
In Etiopia l’assassinio dei giovani etiopi cristiani per mano di altri giovani musulmani fa particolarmente male. La convivenza tra i credenti delle due religioni ha radici millenarie che affondano nei primi anni della storia dell’Islam, quando i seguaci del profeta Maometto, compresa sua moglie, trovarono rifugio dalle persecuzioni cui erano sottoposti nella penisola arabica presso il regno di Axum, nel nord dell’odierna Etiopia. Era la prima metà del VII secolo dopo Cristo. Da allora la coesistenza pacifica e rispettosa è sempre stata un dato di fatto nella vita sociale e culturale dell’altopiano abissino e dell’intero paese. Lo testimonia la storia di ?Jamal Rahman, il giusto islamico, lo definisce “l’Avvenire”, che si è fatto sgozzare a fianco degli amici cristiani con cui aveva tentato la fortuna nel suo ultimo viaggio. Un esempio, che vale molto di più di tante analisi.
Migranti problema politico
E il governo? Ad Addis Abeba ci sono state affollate manifestazioni nella piazza Meskel, la principale della città. I dimostranti non erano stati così numerosi dalle elezioni del 2005 che furono occasione di proteste represse nel sangue. E anche queste dimostrazioni sono diventate occasione di scontro con la polizia. Le elezioni si terranno il prossimo mese ed evidentemente le autorità temono che la disperazione e la rabbia per il destino dei giovani migranti possa trasformarsi in protesta politica, contro il governo.
Anche in Etiopia, infatti, il flusso migratorio dei giovani è un problema politico. Testimonia del crescente divario tra gli strati sociali, delle risorse del paese utilizzate per uno sviluppo a vantaggio di troppo pochi. La rotta verso l’Europa non è l’unica percorsa dai giovani etiopi. Più di 100.000 ogni anno si dirigono verso i paesi arabi, Arabia Saudita soprattutto, passando lo stretto del Bab el Mandeb, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, da Gibuti allo Yemen. È la rotta dei giovani delle campagne, quelli più poveri ed emarginati. Anche questa rotta, che dall’Etiopia rurale porta a sud est, tra montagne impervie e desertiche, è disseminata di cadaveri e da storie di trafficanti e trafficati torturati perché i soldi per pagare la tappa non arrivano in tempo. Ora, a causa della crisi yemenita, i villaggi della costa di Gibuti sono pieni anche di giovanissimi etiopi che hanno finito i soldi per il viaggio, raggranellati spesso vendendo il terreno e il bestiame della famiglia. Si raggruppano all’ombra, nelle stradine tra le case calcinate dal sole, con gli occhi grandi e spauriti nei visi affilati, senza sapere cosa fare delle loro speranze naufragate e disperati per la rovina delle famiglie che contavano sulle loro rimesse per cominciare a pensare ad un futuro diverso da quello della miseria senza scampo di tante zone della campagna etiopica.
L’occidente e i suoi errori
Anche qui i migranti sono presi in mezzo a problemi enormi e globali e come quelli che ci riguardano più da vicino nel Mediterraneo. Ma l’analisi delle istituzioni di casa nostra e internazionali, invece, risponde dicendo che la questione sarà affrontata affondando i barconi e che i responsabili sono i trafficanti e gli scafisti. Una manipolazione della realtà, questa, talmente plateale da risultare ridicola, che cerca di farci credere che l’effetto sia la causa, dando prova di una leggerezza e di un cinismo colpevoli sul piano politico oltre che umano, di cui vedremo i frutti avvelenati in un prossimo futuro. Quanti giovani migranti saranno disposti a farsi sgozzare? Quanti di loro non preferiranno arruolarsi nel sedicente Stato islamico più o meno volontariamente per cercare di sopravvivere? E come si farà a smontare il progetto dell’Isis se si aumenta il senso di disperazione e di esclusione dei paesi e delle popolazioni, fin sui nostri confini? Chissà se queste domande sono state messe sul tavolo nei consessi ai più alti livelli che hanno esaminato la questione. Per ora si sono viste solo risposte sbagliate.