Guinea Equatoriale: ennesimo plebiscito-farsa per Teodoro Obiang
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Scontate le elezioni generali del 20 novembre
Guinea Equatoriale: ennesimo plebiscito-farsa per Teodoro Obiang
I risultati ufficiali saranno resi noti sabato, ma non ci sono dubbi: il presidente uscente, al potere da 43 anni, rimane in sella fino al 2029. Continuando ad arricchirsi con il petrolio
22 Novembre 2022
Articolo di Luca Bussotti
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(Observador)
Teodoro Obiang Nguema Mbasogo

È il capo di stato più longevo della terra. Si chiama Teodoro Obiang, ha compiuto ottant’anni nel giugno scorso e, dopo 43 anni di potere assoluto si è di nuovo candidato – naturalmente con successo – alla presidenza di questo piccolo paese in buona parte insulare dell’Atlantico africano.

L’unico di questo continente ad avere la lingua spagnola come idioma ufficiale, a cui si sono poi aggiunti anche il francese e il portoghese, in seguito all’adesione del regime di Malabo alla Francofonia prima (1998), e alla Comunità dei paesi di lingua ufficiale portoghese (Cplp) poi (2014).

Da quando, nel 1979, depose suo zio, Francisco Macias, poi fucilato, Teodoro Obiang non ha più lasciato il potere. La storia elettorale della Guinea Equatoriale si confonde con le fortune personali di Obiang. Dopo l’approvazione della nuova costituzione nel 1982, che lasciava in carica Obiang come presidente della repubblica per un mandato di sette anni, lo stesso si candidava nel 1989 in un regime monopartitico, ottenendo il 99% dei voti.

Nonostante l’apertura formale verso il multipartitismo, anche nelle elezioni del 1996, 2002 e 2009 Obiang ottenne maggioranze bulgare, sempre al di sopra del 95%, sotto le insegne del partito da lui fondato nel 1987, il Partito democratico della Guinea Equatoriale.

Nel 2016 Obiang fu rieletto per un ennesimo mandato di sette anni, interrotto da lui stesso qualche mese prima della scadenza naturale, al fine di accoppiare le elezioni presidenziali e legislative con quelle amministrative.

Così, domenica 20 novembre scorso si sono tenute le nuove elezioni-farsa, che hanno visto Obiang trionfare con circa il 99,7% dei voti, secondo una tradizione ormai consolidata in questo paese africano di circa 1,5 milioni di abitanti e 400.000 elettori.

Questa volta a disputare la presidenza con l’eterno presidente erano due avversari: Buenaventura Monsuy Asumu, che ha partecipato alle ultime cinque tornate elettorali, e Andrés Esono Ondo, che ha corso per la prima volta quest’anno.

I due non hanno riconosciuto i risultati elettorali, considerando Obiang come un presidente illegittimo, nonostante le raccomandazioni di Stati Uniti e Unione europea per elezioni libere e trasparenti.

Osservatori spuntati

Due organizzazioni sovranazionali, l’Unione africana e la Cplp, hanno mandato propri osservatori elettorali che gli attivisti locali hanno considerato «complici» del regime.

Uno di questi, membro della Commissione equato-guineense dei giuristi, parlando anonimamente all’agenzia di stampa portoghese Lusa ha infatti spiegato che gli osservatori internazionali arrivano sul territorio della Guinea Equatoriale pochissimi giorni prima delle elezioni, perdendosi, quindi, tutto il processo di “fabbricazione del consenso” che ha sempre portato a frodi elettorali di enormi proporzioni.

Eló Ayeto, coordinatore della piattaforma della società civile appoggiata dall’Unione europea, Civil Somos+, ha giudicato «vergognoso» il comportamento dell’Unione africana, poiché, coi suoi report, ha sempre legittimato le vittorie di Obiang che, occorre ricordarlo, fra il 2011 e il 2012 ha presieduto proprio la più importante organizzazione africana.

D’altro canto, la Cplp sarebbe “impotente”, poiché da semplice invitata non ha alcun potere di controllo sul processo elettorale, né può esprimere valutazioni negative su di esso.

Quel che è certo è che Obiang governerà il paese per altri sette anni, età e salute permettendo.

Un paese in cui il 75% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, la metà non ha accesso all’acqua potabile, e il cui presidente è stato classificato da Forbes come uno degli africani più ricchi, mentre grandi multinazionali petrolifere, come la francese Total, sfruttano il greggio offshore sin dagli anni Ottanta.

 

 

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