
È uscito nelle sale italiane Black Tea, il nuovo film di Abderrahmane Sissako, presentato senza grande clamore all’ultima Berlinale. Dieci anni dopo il successo di Timbuktu, il regista cambia radicalmente stile, registro e geografie per raccontare la storia di Aya che dopo aver detto “no” nel giorno delle sue nozze, abbandonando sull’altare il promesso sposo fedigrafo, lascia la Costa d’Avorio per ricominciare una nuova vita nel quartiere “Chocolate City”, enclave africana nella città cinese di Guangzhou.
Qui viene assunta in una boutique di tè di proprietà del cinquantenne divorziato Cai il quale, nell’intimità del retrobottega, le insegna l’antica arte di preparare il tè. Tra i due nasce una relazione sentimentale che si scontra però ben presto con un passato di segreti, bugie e un presente intriso di razzismo.
Il desiderio di creare un personaggio femminile forte si intreccia con quello di raccontare l’incontro tra Cina e Africa da un punto di vista non eurocentrico. L’Europa, afferma Sissako, chiusa nella sua conchiglia, sembra non vedere quello che succede nei mercati africani dove le lingue e le culture sono già mescolate.
La scelta della Cina non è certo casuale. «Non ho abbandonato l’approccio politico in questo film: quando uno dei personaggi afferma che la Via della Seta non funziona più, questo è un modo per dire che non possiamo più costruire ponti fra i paesi con l’unico scopo di trasportare beni materiali».
Eppure nel film tutto sembra girare intorno al commercio. Le persone si incontrano, si innamorano, discutono tra la piccola bottega di tè, un negozio di acconciature afro, un centro estetico, un ristorante, un negozio di valigie.
«Partendo da una storia d’amore, che è un soggetto universale in cui tutti si possono identificare, in realtà racconto più cose contemporaneamente» spiega il regista. Ed è forse questo il punto debole del film che intorno alla vicenda principale costruisce un coro di personaggi secondari poco sviluppati e un surplus di sottotrame intorno al tema dell’esilio e della ricerca della felicità.
La vita nel quartiere dove africani e asiatici convivono apparentemente in armonia, in una mescolanza di culture e lingue (francese, mandarino, bété, inglese, arabo, creolo) risulta però artificiosa ed esageratamente idilliaca.
Forse a voler sottolineare la dimensione onirica dell’amore tra Aya e Cai e quindi dell’intera storia. Aya è emigrata mentalmente più che fisicamente, dichiara ancora Sissako, aprendo la possibilità di un’interpretazione più sottile.
Un lungo flashback che riporta Cai a Capo Verde e un finale ambiguo complicano ulteriormente la storia che galleggia in un gioco notturno di riflessi, dissolvenze incrociate e cromatismi che rimandano inevitabilmente al cinema di Wong Kar Wai.
Girato quasi interamente a Taiwan e sostenuto da una imponente coproduzione internazionale,
Black Tea sembra ridursi ad un esercizio di stile che mescolando geografie e utopie sembra voler preconizzare un umanesimo globalizzato prêt-à-porter.
Siamo molto lontani dall’essenzialità malinconica di Aspettando la felicità o dalla sperimentazione di Bamako, entrambi profondamente radicati tra Mali e Mauritania e sospesi tra documentario ed una certa poetica dell’astrazione. Qui siamo più dalle parti di un centro commerciale e di un cinema che ha perso un autore.