Cpr: da Centri per rimpatri a Centri per affari - Nigrizia
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Report Cild / La detenzione dei Buchi neri
Cpr: da Centri per rimpatri a Centri per affari
I Cpr sono una filiera remunerativa per le multinazionali che li gestiscono. Una galera, senza diritti né senso, per i migranti che vi vengono rinchiusi senza poi essere rimpatriati. Due facce della stessa medaglia detentiva raccontate dal report “Buchi neri” della Coalizione italiana libertà e diritti civili
19 Ottobre 2021
Articolo di Jessica Cugini
Tempo di lettura 4 minuti
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(Credit: x-default)

“Una filiera remunerativa per i privati che la gestiscono”. Questo sono i 10 Centri per il rimpatrio (Cpr) per la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), la rete di organizzazioni della società civile che lo scorso 15 ottobre ha presentato il report Buchi neri. La detenzione senza reato nei Centri di permanenza per i rimpatri.

A dirlo sono i numeri: oltre 40mila euro al giorno, per meno di 400 persone quotidianamente presenti. Per un totale, in nemmeno tre anni – dal 2018 al 2021 –, di 44milioni di euro. Cifra cui in realtà occorre sommare i costi di manutenzione dei 10 centri e quelli del personale di polizia chiamato a sorvegliarli. Perché, seppure chi si trova all’interno non abbia commesso alcun reato, se non quello di trovarsi senza documenti per rimanere in Italia, si tratta pur sempre di un sistema di detenzione. E, si sa, fuori e dentro le carceri, è la polizia che sorveglia.

Oltre 40mila euro al giorno per detenere in un Centro per il rimpatrio persone che difficilmente saranno rimpatriate. Perché mancano gli accordi con i paesi di origine per cui, una volta arrivati al tempo massimo previsto dalla legge, la maggior parte dei transitanti per queste strutture sarà rilasciata. I rimpatri avvengono solo nel 50% dei casi.

E oltre la metà di questi rinvii, dal 1° gennaio 2020 al 15 settembre di quest’anno, ha riguardato cittadini tunisini, che non sono solo la nazionalità più numerosa (seguita da quella marocchina, nigeriana, egiziana, albanese, gambiana e algerina) ma, per gli accordi tra stati, anche i più facilmente restituibili. Anche se, sottolinea il report, proprio la celerità di questi rimpatri comporta delle gravi violazioni dei diritti. Spesso infatti, costoro non vengono informati sulla possibilità di chiedere asilo e formalizzare la propria domanda di protezione.

Il business delle multinazionali

E queste sono solo due delle innumerevoli privazioni di diritto che vengono elencate dal rapporto. Due dei buchi neri. Cui si aggiungono la mancanza di personale destinato a prendersi cura di chi viene detenuto nei Cpr: mediatori culturali, medici, psicologi. Figure assenti o, se presenti, ridotte nel monte ore di prestazione del proprio servizio.

Mancanza di strutture separate per i richiedenti, chiusi in stanze che non rispettano lo standard dello spazio vitale minimo che viene richiesto dalla Corte europea dei diritti; luoghi di pernottamento senza finestre (Torino), in cui non è possibile accendere o spegnere in maniera autonoma la luce (Milano, Torino, Gradisca Roma, Palazzo San Gervasio); materassi senza lenzuola (Bari) o con presenza di blatte; bagni alla turca senza le porte; condizioni igieniche pessime e cibo qualitativamente scadente.

Se nel sistema di detenzione amministrativa i migranti perdono; le multinazionali, che in tutta Europa gestiscono varie tipologie di centri di trattenimento e penitenziari, vincono. Contraddicendo chi, a suon di decreti, voleva colpire chi lucrava nel sistema di gestione delle accoglienze e respingimenti.

È sufficiente vedere i conti di Ors Italia, che dal 2020 gestisce il Cpr di Macomer e, al tempo stesso, con l’Ors che ha sede a Zurigo, i centri di Svizzera, Germania, Austria e Italia. O quelli di Gepsa Italia, che dal 2015 ha in mano il centro di Torino; figlia della multinazionale francese che lo scorso anno ha fatturato quasi 60 miliardi gestendo i servizi di ben 22 strutture penitenziarie. Un giro di soldi oggetto di inchieste giudiziarie, si pensi ai processi che riguardano il Cpr di Gradisca e la cooperativa Edeco, o il Cpr di Bari e la cooperativa Badia Grande.

6 morti in due anni

Un transito, quello all’interno dei Cpr, che non ha conosciuto stop nonostante la pandemia. I numeri, a leggere il report, sono rimasti costanti rispetto agli anni precedenti.  A dispetto di tutta una serie di procedure di prevenzione e profilassi che venivano richieste in tempo di Covid e che sono rimaste disattese, da qui tante denunce e interrogazioni parlamentari sul mancato utilizzo di mascherine, guanti, igienizzanti, su luoghi dove non erano assicurati i distanziamenti ed evitate le promiscuità, e sulle mancate comunicazioni di positività all’interno delle strutture.

E sempre sulle presenze nei centri, Buchi neri punta un dito accusatorio: contro ogni legge scritta a tutela dei minori, all’interno del Cpr di Ponte Galeria a Roma sono transitati ben 19 minorenni. Una realtà che il Garante nazionale ha sottolineato essere non esclusiva del centro romano, ma presente nell’intero territorio italiano. Criticità cui si aggiunge il numero delle morti all’interno dei Cpr: 6 in due anni. Un numero mai così elevato.

 

 

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