
La dichiarazione di “guerra commerciale totale” del presidente USA Donald Trump nei confronti del resto del mondo andrà a colpire duramente anche le economie emergenti e quelle più povere.
L’Africa, da decenni mantenuta nel sottosviluppo per convenienza in particolare delle imprese e dei governi occidentali, rischia di pagare un prezzo molto alto.
Come Trump ha calcolato i dazi
La Casa Bianca giustifica questa misura con la volontà di proteggere le sue industrie da una concorrenza ritenuta sleale a causa della “non reciprocità” tariffaria. La formula usata per quantificare i dazi verso un altro paese è astratta, banale e meccanica: il totale delle sue esportazioni verso gli USA diviso per l’eventuale surplus; il risultato è diviso per due.
Questa strategia protezionistica inevitabilmente rischia di produrre risposte altrettanto dure. Europa, Canada e Cina stanno preparando le loro contromisure, anticipando un’escalation delle tensioni commerciali. In questo pericoloso scontro i paesi africani rischiano di essere le vittime collaterali.
Lo stop a USAID e un “uno-due” micidiale
Molti di loro hanno a che fare con livelli di povertà e di debito elevati e, in alcuni casi, con situazioni di guerra e di emergenza alimentare e sanitaria. Le tariffe si aggiungono allo smantellamento, da parte dell’amministrazione Trump, di USAID, l’agenzia governativa americana per gli aiuti umanitari e di sviluppo, che all’Africa forniva risorse ingenti.
La tabella dei nuovi dazi presentata da Trump in mondovisione non risparmia proprio nessuno. Prevede una tariffa minima del 10% per la maggior parte dei paesi africani. Per alcuni i dazi sono enormi: 50% per il Lesotho, 47% per il Madagascar, 40% per Mauritius, 32% per l’Angola, 30% per il Sudafrica, 21% per la Costa d’Avorio, 14% per la Nigeria.
I numeri per quanto riguarda l’Africa
Nel 2023, il commercio tra l’Africa subsahariana e gli Stati Uniti aveva raggiunto i 47,5 miliardi di dollari, di cui 29,3 di esportazioni africane verso il mercato americano. Tra i principali prodotti esportati vi sono il petrolio, i metalli preziosi e altre materie prime, i veicoli e l’abbigliamento.
I principali fornitori africani sono stati il Sudafrica (14,0 miliardi di dollari), la Nigeria (5,7 miliardi),il Ghana (1,7 miliardi), l’Angola (1,2 miliardi) e la Costa d’Avorio (948 milioni). I settori manifatturieri africani, in particolare quello tessile e automobilistico, perderanno competitività sul mercato americano.
Le aziende tessili del Madagascar e del Lesotho, che dipendono dal mercato statunitense, potrebbero subire un rallentamento con una forte perdita di posti di lavoro. L’industria automobilistica sudafricana, che esporta 1,7 miliardi di dollari negli Stati Uniti, potrebbe subire perdite considerevoli.
Molte industrie emergenti del continente saranno colpite. In Nigeria, per esempio, la mega-raffineria di Aliko Dangote che contava sul mercato americano per esportare il suo cherosene. Anche la zona industriale di Glo-Djigbé (GDIZ) nel Benin, che ha appena iniziato a esportare abbigliamento negli USA, pari già al 5,7% delle esportazioni del paese verso Washington.
Sono esposti anche il Kenya e l’Egitto, le cui produzioni tessili sono in parte orientate verso gli Stati Uniti, e il Marocco, che vi invia principalmente macchinari elettrici e apparecchiature elettroniche.
L’annuncio di queste nuove tariffe ha suscitato serie preoccupazioni tra i governi africani. Già la precedente amministrazione Trump aveva imposto dei dazi, innescando tensioni commerciali. Resta da vedere come i paesi africani risponderanno a queste nuove misure, anche rivalutando i loro accordi commerciali e cercando mercati di esportazione alternativi.
La presidenza sudafricana, per esempio, ha dichiarato che le nuove tariffe statunitensi pongono l’accento sulla necessità di negoziare un nuovo accordo commerciale con Washington per garantire un rapporto di lungo termine.
Il caso dello Zimbabwe
E c’è già chi attua misure inaspettate. Gli USA hanno imposto allo Zimbabwe dazi dell’18% sulle loro materie di esportazione. Harare, dal canto suo, ha invece deciso di rimuovere le tasse di importazione ai beni provenienti dagli USA.
L’ottica, ha scritto il presidente Emerson Mnangagwa sul social X, è «costruire una relazione reciprocamente vantaggiosa e positiva con gli Stati Uniti d’America, sotto la guida del presidente Trump». Il principio dei dazi reciproci, ha premesso inoltre il capo di stato dello Zimbabwe, «ha dei meriti» come «strumento per salvaguardare l’occupazione nazionale e i settori industriali».
La posta in gioco non è delle più alte, se si guarda ai numeri. L’anno scorso, stando a dati ufficiali USA, l’interscambio commerciale fra Zimbabwe è Stati Uniti è stato in tutto di 11 milioni di dollari, con un surplus di 24 milioni di dollari per il paese africano. A fare da traino, soprattutto tabacco e zucchero. Gli USA non sono fra i primi partner commerciali dello Zimbabwe, che vende e compra soprattutto da Sudafrica, Emirati Arabi Uniti e Cina.
Il punto più interessante del provvedimento di Mnangagwa è politico però. I rapporti fra Harare e Washington non sono buoni. Gli USA hanno sottoposto il paese a un regime di sanzioni per circa 20 anni. Misure punitive che sono state modificate e ridimensionate l‘anno scorso ma che continuano a colpire alcuni individui di alto rango, a partire dallo stesso presidente. La decisione di rispondere ai dazi non in modo reciproco, ma anzi con un’apertura, fa pensare all’inizio di un possibile nuovo capitolo.
Il destino dell’AGOA
Tornando a guardare al continente nel suo complesso, le misure volute da Trump mettono in forse anche il futuro dell’African Growth and Opportunity Act (AGOA), l’accordo firmato nel 2000 che consente ad alcuni prodotti africani di beneficiare di un accesso di favore al mercato americano. Scadrebbe a giugno di quest’anno.
Ai 32 paesi dell’Africa subsahariana ritenuti idonei (fra i quali non c’è il già citato Zimbabwe) è permesso esportare negli USA circa 6.800 prodotti senza pagare dazi doganali. Secondo un rapporto del Congressional Research Service (CRS), l’istituto di ricerca sulle politiche pubbliche del Congresso americano, le esportazioni dai paesi dell’Africa subsahariana verso gli USA nell’ambito dell’AGOA nel 2024 sono state pari a 8 miliardi di dollari, con un calo del 13% rispetto al 2023.
Se le nuove tariffe dovessero interessare anche i prodotti ammissibili all’AGOA, ciò potrebbe mettere in discussione l’intero programma, con notevoli conseguenze economiche e sociali per diversi paesi. Con queste nuove barriere commerciali, le economie africane devono reagire rapidamente per limitare le perdite.
I prossimi mesi si prospettano decisivi per il futuro delle relazioni economiche tra l’Africa e gli Stati Uniti. Di fronte a questa pressione sul commercio africano, i paesi del continente hanno due possibilità: abbassare i propri dazi doganali alle merci americane come ha fatto subito lo Zimbabwe sperando, in cambio, in un accesso preferenziale al mercato USA, indebolendo però le proprie industrie locali nei confronti dei prodotti americani.
L’AfCFTA, terza via per uscire dalla crisi
Oppure reindirizzare le proprie esportazioni verso altri partner. Esiste una terza possibilità molto più fattibile e tutta nelle mani dei paesi africani: sviluppare il commercio intra-africano che rappresenta meno del 20% del totale del continente.
Con l’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA), l’Africa, con un mercato di 1,4 miliardi di persone, ha un’opportunità unica per ridurre la propria dipendenza dai mercati esteri e costruire solide catene del valore all’interno del proprio territorio.
La reale strategia dell’amministrazione Trump è di sconquassare l’intero sistema politico-economico del pianeta, terrorizzare e ricattare tutti i paesi, considerati dei parassiti mantenuti per decenni dall’ingenuità e dalla bontà degli USA, non riconoscere gli organismi internazionali come l’ONU e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC/WTO), smembrare qualsiasi organismo di cooperazione multilaterale, sia esso l’Unione Europea, il gruppo dei BRICS o l’AfCFTA.
Nuovo ordine mondiale
Fatto ciò, negoziare solo bilateralmente accordi di ogni altro tipo, anche sui dazi. La controparte degli USA sarebbe fatta da stati deboli, intimiditi, sottomessi. Il nuovo ordine mondiale previsto da Trump si baserebbe sulla spartizione, momentanea, del mondo in tre aree d’influenza, quella americana, quella cinese e, provvisoriamente, quella russa.
Si tratterebbe di una nuova Conferenza di Berlino del 1884-5, dove gli imperi europei si spartirono le colonie africane, questa volta eventualmente fatta online e con strumenti forniti dall’Intelligenza Artificiale. L’orientamento colonialista non cambierebbe.
E’ doveroso porre attenzione sulla ricchezza straordinaria dell’Africa, materie prime e terre rare, che sono al centro dei giochi geopolitici mondiali. Trump ha già detto che per ottenerle vorrebbe conquistare, annettere il Canada e la Groenlandia.
Non si è ancora espresso rispetto alle materie prime del continente africano, per esempio quelle della Repubblica democratica del Congo, dello Zambia, dell’Angola o del Sudafrica. Essendo aree d’interesse di vari attori economici internazionali, per evitare immediati conflitti diretti, maggiori e mirati interventi potrebbero essere condotti dalle grandi multinazionali americane private con l’appoggio dell’amministrazione di Washington.