Il fallimento del Sud Sudan non è un destino. La povertà e l’instabilità politica che affliggono il “paese più giovane del mondo” fin dalla sua nascita nel 2011 non sono una traccia iscritta nel Dna di questo popolo di 12 milioni di persone e decine di comunità. Sono una scelta. Lo dimostra l’ultima occasione mancata a Juba: le prime elezioni che si sarebbero dovute tenere lo scorso mese e che sono state posticipate al 2026. Una scelta innanzitutto delle élite che si sono spartite il potere dopo gli accordo di pace del 2018 e che si sono limitate ad accaparrarsi risorse e militarizzare le istituzioni. Un “equilibrio della crisi”, si dice nel nostro dossier, che è tale, però, solo per i potenti. La popolazione – che alle urne sarebbe andata con entusiasmo – annaspa fra miseria e violenze intercomunitarie. Peggiorate dalla crisi climatica e dal conflitto in Sudan, da cui provengono centinaia di migliaia di rifugiati e attraverso cui il petrolio – da cui Juba dipende in modo patologico – non passa quasi più.