
“Un incubo iniziato al rallentatore”. Così Amnesty International definisce, nel suo ultimo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo, la pericolosa china discendente intrapresa da oltre un decennio in merito alla tutela di tali diritti.
Il quadro descritto è allarmante: si registra una “costante diffusione di leggi, politiche e pratiche autoritarie nell’interesse di pochissimi, che hanno ridotto lo spazio civico ed eroso il godimento della libertà di espressione o di associazione”, favorendo la crescita di una “feroce repressione del dissenso in tutto il mondo”.
Fino a toccare l’apice, scrive Amnesty, con il genocidio israeliano dei palestinesi a Gaza.
E poi c’è quello che l’organizzazione definisce l’“effetto Trump”, che “ha aggravato i danni arrecati da altri leader mondiali nel corso del 2024, erodendo decenni di duro lavoro per costruire e promuovere i diritti umani universali e accelerando il declino verso una nuova era brutale, caratterizzata dalla commistione di pratiche autoritarie e avidità aziendale”.
“In questo momento storico – ha dichiarato la segretaria generale Agnès Callamard – i governi e la società civile devono lavorare con urgenza per riportare l’umanità su un terreno più sicuro”.
Deriva nordafricana
Una deriva che non risparmia l’Africa. In tutto il Nordafrica, la repressione del dissenso è continuata o è aumentata negli ultimi 24 mesi.
In Tunisia ed Egitto, i regimi autoritari di Kais Saied e del generale Abdel Fattah al-Sisi hanno “intensificato la repressione della libertà di espressione e di ogni forma di dissenso, ricorrendo a leggi repressive e accuse infondate per detenere arbitrariamente figure di spicco dell’opposizione politica, giornalisti, utenti dei social media, difensori dei diritti umani, avvocati e oppositori”.
In Marocco e nel Sahara Occidentale, nonostante la grazia reale concessa a migliaia di prigionieri, le autorità marocchine hanno continuato a prendere di mira giornalisti, attivisti e oppositori del governo.
L’Algeria ha represso la libertà di espressione e di stampa, di riunione pacifica e di associazione, “anche ricorrendo frequentemente ad accuse inventate legate al terrorismo per fermare il dissenso pacifico”.
In Libia, “milizie e gruppi armati hanno arrestato e detenuto arbitrariamente centinaia di attivisti, manifestanti, giornalisti e creatori di contenuti online semplicemente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica”.
Migranti in circoli infernali
Senza contare le disumane violenze perpetrate su rifugiati e migranti dentro e fuori dai centri di prigionia, con “detenzioni arbitrarie e indefinite, torture e altri maltrattamenti, estorsioni, lavoro forzato ed espulsioni illegali”.
Amnesty ricorda anche le “espulsioni collettive e sistematiche di migranti e rifugiati dalla Tunisia verso Algeria e Libia” che hanno “continuato a violare il principio di non respingimento e hanno lasciato le persone in zone di confine deserte o remote senza cibo né acqua”, limitando al contempo l’operato delle organizzazioni internazionali di soccorso.
Il diritto internazionale è stato palesemente violato anche dall’Egitto, con la detenzione arbitraria e il rimpatrio forzato di migliaia di rifugiati sudanesi fuggiti dalla guerra che da due anni devasta il loro paese.
Donne e bambini violati
In tutta la regione, ricorda ancora Amnesty, “donne e ragazze hanno continuato a subire discriminazioni nella legge e nella pratica, anche in relazione ai diritti alla libertà di movimento, di espressione, all’autonomia fisica, all’eredità, al divorzio, alle cariche politiche e alle opportunità di lavoro”.
In Algeria, ad esempio, la legge consente agli stupratori di evitare il carcere sposando la loro vittima, mentre in Libia il governo di unità nazionale di Tripoli intende introdurre l’obbligo di portare il velo e di farlo rispettare attraverso la polizia morale.
La situazione per le donne non migliora se si guarda all’Africa subsahariana e ai tanti paesi in preda a conflitti, terrorismo e gruppi armati. Un allarmante aumento dei casi di violenza sessuale legata ai conflitti, scrive Amnesty, si è registrato in particolare nella Repubblica Centrafricana, dove nella prima metà dell’anno sono stati segnalati oltre 11mila casi di violenza di genere.
Nella Repubblica democratica del Congo, il numero di casi segnalati è raddoppiato nel primo trimestre del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023, mentre in Sudan lo stupro e la schiavitù sessuale vengono usati come arma di guerra dalle milizie RSF, in particolare a Khartoum, in Darfur e nello stato di Gezira. Ma la violenza sessuale legata ai conflitti è diffusa anche in Somalia e Sud Sudan.
Conflitti e insicurezza hanno anche negato a milioni di bambini l’accesso all’istruzione. Oltre 17 milioni di bambini sono rimasti fuori dalla scuola in Sudan, quasi 8 milioni in Etiopia. In Africa occidentale e centrale, oltre 14mila scuole sono rimaste chiuse, colpendo altri 2,8 milioni di bambini. In Burkina Faso, il conflitto ha costretto alla chiusura di oltre 5.300 scuole, lasciando quasi 1 milione di bambini fuori dalle aule.
Amnesty ricorda anche che “migliaia di persone sono rimaste senza casa e indigenti dopo che i governi hanno effettuato sfratti forzati in diversi paesi”, tra cui Congo, Etiopia, Costa d’Avorio e Kenya.
Brutale repressione
Estremamente diffuso è anche l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza, con omicidi e arresti di massa di manifestanti documentati in paesi come Guinea, Kenya, Uganda, Tanzania, Mozambico, Nigeria, Senegal, Angola, Benin, Botswana, Costa d’Avorio e Guinea Equatoriale. In altri paesi, tra cui Ciad, Togo e Zambia, le autorità hanno vietato le proteste.
Arresti e detenzioni arbitrarie di attivisti dell’opposizione e difensori dei diritti umani sono stati testimoniati in molti paesi, tra cui Angola, Benin, Burkina Faso, Burundi, Ciad, Guinea Equatoriale, Mali, Mozambico, Niger, Sud Sudan, Tanzania, Togo, Zambia e Zimbabwe.
Con sparizioni forzate diffuse in Angola, Burkina Faso, Burundi, Guinea, Kenya, Mali, Sierra Leone e Tanzania.
Giornalisti sotto attacco e impunità
Feroce è stata anche la repressione contro i giornalisti, che “ha alimentato un clima di paura che ha portato all’autocensura”. I giornalisti, scrive Amnesty, “sono stati minacciati, aggrediti fisicamente e/o arrestati arbitrariamente in Angola, Ciad, Guinea, Kenya, Lesotho, Nigeria, Tanzania, Togo, Zimbabwe e altri paesi.
Al 10 dicembre scorso, 8 giornalisti erano stati uccisi in Africa, 5 dei quali in Sudan, secondo la Federazione Internazionale dei Giornalisti”. Mentre in Benin, Burkina Faso, Guinea, Tanzania, Togo e altrove, le autorità hanno sospeso o minacciato di sospendere le attività di emittenti e giornali.
Il quadro si completa ricordando che l’impunità è rimasta radicata in molti paesi, dall’Eswatini al Malawi, dal Senegal al Sud Sudan e che sempre meno risorse vengono destinate dai governi alla sanità pubblica e al contrasto alla crisi climatica, aumentando disparità e sofferenze per la popolazione.