
Sono scemate finora le speranze che il governo di Addis Abeba intervenisse per mitigare la situazione di siccità e carestia che da anni si protrae nella regione sud-etiopica dell’Oromia, abitata dai borana.
Una speranza nutrita da centinaia di migliaia di sfollati che si illudevano potesse diventare realtà una volta risolto il conflitto tra lo stato-regione del Tigray, nel nord-ovest del paese, e il governo federale di Addis Abeba.
La guerra, nella quale si stima che un milione di persone abbiano perso la vita, provocando la fuga di altri milioni e un danno economico stimato in 28 miliardi di dollari, aveva accentrato tutta l’attenzione e le risorse del governo.
L’amministrazione di Abiy Ahmed non aveva né la volontà politica né la capacità di riconoscere ulteriori crisi, tra le quali per l’appunto il sud-est e la regione somala sui confini con Kenya e Somalia.
Queste aree sono abitate soprattutto da popolazioni tuttora dedite per lo più alla pastorizia e all’allevamento. La scarsa presenza del governo centrale in questi territori si spiega oggi anche con le perduranti condizioni di instabilità politica e di conflitto non più in Tigray ma nello stato-regione Amhara, in vaste aree dell’Oromia e nel Benishangul-Gumuz, sul confine con il Sudan.
Pastorizia e allevamento sono tradizionalmente le attività più comuni in un sistema di mercato ampiamente informale e profondamente radicato nello stile di vita di molte comunità semi-nomadi, non solo tra i borana ma in gran parte del Corno d’Africa, che conta oltre all’Etiopia, Eritrea, Somalia, Gibuti e Sudan.
Il bestiame grande e minuto in questi paesi non costituisce solo una risorsa economica, ma è una forma di ricchezza generazionale, intrisa di memoria, attaccamento e significato culturale. Gli animali allevati non sono solo merci, sono parte integrante dell’identità pastorale e della sopravvivenza dei membri della società.
Nel commercio e nel mercato, i pastoralisti adottano un approccio strategico nella vendita dei loro animali. Capre e pecore servono come fonte immediata di denaro, mentre i bovini vengono venduti per transazioni finanziarie più consistenti. I cammelli, d’altro canto, gli animali di maggior valore economico, costituiscono una preziosa riserva per le situazioni di crisi più gravi, rappresentando una sorta di risparmio a lungo termine.
Il caso etiopico
Il territorio dei borana del sud Etiopia è un’area con una secolare tradizione di pastoralismo semi-nomade e di allevamento. Visitando la regione durante la grave siccità che ha colpito l’area a partire dal 2021, con altri amici siamo stati testimoni diretti della siccità che aveva provocato condizioni estreme di precarietà economica e materiale di pastori e allevatori.
Costoro erano stati costretti con le famiglie ad abbandonare in centinaia di migliaia le proprie abitazioni e proprietà, trovando rifugio in centri di raccolta gestiti da varie organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite e di altri organismi.
Molti di loro ci comunicavano che, nel disperato e fallito tentativo di provvedere al proprio sostentamento, avevano alla fine deciso, a malincuore, di vendere il loro bestiame grosso o minuto: tori, pecore, capre e bovini, contrattando il prezzo con commercianti del settore. Molti di questi, ci diceva la gente, spinti solo dalla molla del profitto, avevano sfruttato la situazione di carestia pagando gli armenti a prezzi stracciati.
Molti pastori, peraltro, alla ricerca di pascoli e fonti di abbeveraggio per evitare di dover vendere il bestiame a credito, avevano fatto il possibile per posticipare la vendita, sperando che la situazione metereologica migliorasse. Ma alla fine avevano dovuto desistere di fronte alla moria del bestiame e al rischio di vedere morire per fame i propri figli.
La gente, peraltro, ci raccontava che le trattative di compravendita di pastori e allevatori non si basano su condizioni eque di commercio, cosicché le disuguaglianze già presenti in condizioni di normalità aggravano ancor di più la loro vulnerabilità.
Abbiamo avuto modo quindi di testimoniare di persona gli effetti devastanti su centinaia di migliaia di persone, raccoltesi in tendopoli e campi profughi dopo essersi trovate prive dei minimi mezzi di sussistenza e per la carenza di cibo e acqua, mettendo così a repentaglio la loro stessa sopravvivenza.
Nel corso di quattro consecutive stagioni di scarsità di piogge, sono andati perduti oltre 4 milioni di capi di bestiame, e intere comunità, oltre un milione di persone secondo le stime, sono state costrette ad un devastante esodo verso i campi di sfollati interni, per evitare la fame.
La situazione col tempo è peggiorata anche perché il governo ha rifiutato di definire ufficialmente “crisi umanitaria” la disastrosa situazione, indebolendo così di fatto qualsiasi iniziativa di soccorso su larga scala.
Immagine di prosperità
Prima della pandemia di Covid, tra l’altro, il governo etiopico era fortemente impegnato a proiettare un’immagine internazionale di stabilità e crescita, lasciando poco spazio a ciò che avrebbe potuto compromettere questa visione, come appunto la siccità e la carestia. La situazione nell’area dei borana, pertanto, appariva in diretto conflitto con l’Agenda della Prosperità proiettata dal governo.
Di conseguenza, il governo ignorò completamente la crisi umanitaria che si andava sviluppando. Fu riluttante perfino nel consentire alle organizzazioni umanitarie di operare liberamente nella regione meridionale, temendo che ciò potesse distogliere l’attenzione dallo sforzo bellico o compromettere i suoi obiettivi politici più ampi.
Le comunità vulnerabili rimasero così senza aiuti essenziali, esacerbando ulteriormente la sofferenza delle persone colpite dalla siccità. Più che dal governo, dunque, l’aiuto umanitario alla gente è giunto finora da alcune agenzie umanitarie, da gruppi religiosi e da privati, dalla diaspora presente nei paesi occidentali e del Golfo, e da piccole organizzazioni di base.
Le conseguenze della devastante siccità di questi ultimi quattro anni sono state dunque l’aver portato gran parte dei borana a una estrema povertà. Non potendo più tornare ai propri villaggi perché il governo non si è neppure curato di aiutare la gente a riprendersi favorendo un ripopolamento del bestiame, i pastori sono rimasti privi di mezzi di sostentamento, cosicché centinaia di famiglie sfollate per la siccità si sono stabilite lungo la strada tra Addis Abeba e Moyale, sui confini col Kenya.
Senza bestiame, gli sfollati sopravvivono dipendendo interamente dalle razioni alimentari dell’azione umanitaria, mentre hanno abbandonato la loro secolare conoscenza della gestione di grandi mandrie in zone semi-aride.
Espropriati delle terre
Molti analisti affermano che la strategia governativa sia in realtà di sfruttare la siccità per costringere i pastori borana alla sedentarizzazione.
In altre parole, dicono, attraverso la costruzione di decine di micro-dighe per raccogliere l’acqua piovana, intendono trasformare i pastori in agricoltori, benché non abbiano esperienza alcuna di coltivazioni, obbligandoli così ad abbandonare il loro stile di vita tradizionale.
Tra l’altro, dicono i critici, lo stanziamento della gente lungo la strada sta accelerando a un ritmo allarmante l’espropriazione di terre, dove privati e speculatori si appropriano rapidamente e senza controllo di terreni per recinzioni, agricoltura e persino allevamento di animali su larga scala.
L’amministrazione locale ha già assegnato un enorme terreno finalizzato a “ingrasso del bestiame”, che a quanto sembra verrebbe esportato totalmente nei paesi del Golfo. A tale scopo da tempo sono state investite cospicue somme per la trivellazione di acque sotterranee.
Inoltre è in corso la costruzione di un enorme aeroporto a Yabelo, città capitale del Borana, al fine di incrementare la mobilità e sostenere il commercio. Questo senza la minima consultazione dei pastoralisti, sulle cui terre viene costruito l’aeroporto.
Molti sostengono che in tal modo l’area verrà modernizzata, ma a pagarne il prezzo sarà lo strato più povero dei borana, dato che a beneficiare dell’eventuale sviluppo agricolo sarà chi dispone di significative risorse finanziarie, investitori e ricchi possidenti.
I pastori, poveri ed emarginati, che per secoli hanno fatto affidamento su queste terre per sopravvivere, vengono così completamente espropriati a favore di interessi commerciali su larga scala.
Nello scenario descritto viene naturale ritenere che la tragedia della siccità non sia più soltanto un fenomeno naturale come in passato, ma che venga trasformata in un’arma volta a cancellare i mezzi di sostentamento dei pastoralisti come pure secoli di conoscenze tradizionali e identità culturale.