Nonostante le insistenti pressioni dei leader religiosi, ieri il parlamento del Gambia ha respinto un disegno di legge che prevedeva la revoca del divieto di eseguire mutilazioni genitali femminili (MGF), una mossa accolta con sollievo dalle organizzazioni per i diritti delle donne – e per i diritti umani in generale – dentro e fuori il paese, che a lungo hanno lottato contro il Women Amendment Bill 2024.
Nelle prime due letture il disegno di legge era stato approvato dalla maggioranza dei legislatori. Il respingimento ieri con voto contrario su ognuno dei quattro articoli, avvenuto prima di una terza e ultima lettura, lo ha di fatto definitivamente affossato. Se fosse passato il Gambia avrebbe ottenuto il poco invidiabile primato di primo paese al mondo a revocare il divieto, imposto nel 2015.
Un divieto che prevede pene fino a tre anni di reclusione e multe ma che, fanno notare gli attivisti, non ha sortito l’effetto sperato di deterrenza, visto che negli ultimi nove anni solo due casi sono stati perseguiti legalmente. Sotto accusa il Consiglio islamico supremo che lo scorso ottobre era arrivato ad emettere una fatwa che condanna chiunque denunci la pratica.
Le cifre confermano la difficoltà a debellare questa pratica, ancora diffusa in vaste aree del continente. In Gambia, infatti, il 73% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito la rimozione parziale o totale dei genitali esterni, secondo recenti dati dell’UNICEF che pongono il piccolo paese dell’Africa occidentale, a prevalenza musulmana, tra i 10 paesi al mondo con i più alti tassi di MGF.
Un’operazione eseguita il più delle volte su bambine sotto i 5 anni, in clandestinità e con strumenti e sistemi di tutela sanitaria inadeguati. Cosa che mette a rischio la salute, e non di rado la vita stessa, delle donne. Senza contare i danni permanenti dal punto di vista psicologico e relazionale.
Le Nazioni Unite, in un report pubblicato a marzo, stimano che siano oltre 230 milioni le donne sottoposte a questa pratica nel mondo.