Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari - Nigrizia
Libri Stati Uniti
Alessandro Portelli
Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari
L’assassinio di George Floyd, avvenuto il 25 maggio 2020, ha scoperchiato una delle ingiustizie di questo tempo. Ma la sua storia non è unica, riguarda da secoli la popolazione afroamericana. Ha a che fare con il razzismo e con un corpo di polizia legittimato ad agire perché impunito. Un libro, "Il ginocchio sul collo", fa luce su storie e avvenimenti che oggi hanno come simbolo il movimento Black lives matter
30 Marzo 2021
Articolo di Jessica Cugini
Tempo di lettura 3 minuti
ilGinocchio

Il ginocchio sul collo. Non serve esplicitare a cosa si riferisca Alessandro Portelli nel titolo del suo libro. L’immagine che arriva alla mente è immediata e ha due protagonisti: George Floyd e Derek Chauvin.

Una scena che chissà quante volte ha abitato le strade americane, ma la cui diffusione mondiale ha scoperchiato vecchie e note contraddizioni, dando vita a manifestazioni negli Usa e in varie parti del mondo.

E non ha riguardato, come spesso accade, solo i neri afroamericani, «ma anche tanti di quelli – bianchi e ispanici, uomini e donne, in gran parte giovani – che sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della diseguaglianza crescente, della precarietà, dello svuotamento della democrazia».

Il fatto che un nero muoia per mancanza d’aria ha vestito l’avvenimento di una simbologia di privazione più alta e altra; è diventato icona dei senza diritto, bianchi o neri che siano.

Ma c’è un dato di fatto: sono gli afroamericani quelli più vessati dalla polizia negli Usa: sono il 13% della popolazione statunitense e il 24% delle vittime di cui è nota l’identità “razziale”. Portelli riporta una lunga serie di episodi di violenza che si concludono sempre nello stesso modo: la morte del nero, l’impunità del poliziotto.

Tanto che per molti neri la polizia è divenuta simbolo di un potere di repressione bianca, razzista. In America, sostiene l’autore, la polizia nasce «come forza destinata al controllo territoriale delle classi subalterne e soprattutto degli afroamericani». E per far questo viene armata come se fosse un esercito.

Tant’è vero che, in un passato non troppo lontano, lo stesso Malcom X e i militanti del Black Panther Party si riferivano alla polizia che girava per i ghetti abitati dei neri come “forze di occupazione” in “territori occupati”.

E questo ha fatto sì che la polizia, col tempo, diventasse sempre più una casta dal forte spirito corporativo (caratteristica non solo degli Usa però, basti pensare al quadrato che si è stretto attorno ai casi Cucchi, Aldrovandi, alle vicende della Diaz o Bolzaneto durante il G8 del 2001), che tende a difendersi e autotutelarsi fino a sviluppare la certezza di impunità.

Un’impunità alimentata dal racial profiling, cioè dalla consuetudine di pensiero per cui ogni nero è potenzialmente un criminale, perciò è meglio sparare prima che sia lui a farlo. Se lo si ferma in auto e gli si chiedono i documenti, non importa cosa prenderà dal vano oggetti, potenzialmente è già di per sé una minaccia e la paura rappresenta un’attenuante capace di rovesciare la presunzione di innocenza.

Gli afroamericani hanno il doppio delle possibilità di essere arrestati e il quadruplo di subire atti violenti quando avvengono manifestazioni. Fermati, non incorrono nel rischio di una multa per guida in stato di ebbrezza, ma per driving while black, guida in stato di nerità.

Donzelli, 2020, pp. 194, € 17,00

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