
Africa/La lunga scia di sangue
L’anno è appena iniziato ed è un susseguirsi di attentati di matrice jihadista nel continente, con decine di morti, soprattutto nel Sahel e nel Corno. Eppure l’attenzione dell’opinione pubblica è bassa. Come se quelle violenze fossero più tollerabili rispetto a quelle afflitte in altre aree del mondo.
Il 7 gennaio, a Garissa, nella provincia settentrionale del Kenya (al confine con la Somalia), 4 civili sono stati uccisi in uno scontro a fuoco ingaggiato dalla polizia contro alcuni militanti di al-Shabaab. I terroristi stavano per attaccare un impianto della compagnia di telecomunicazioni Safaricom.
Almeno 30 persone, lunedì 6 gennaio, sono state assassinate in un attacco nel nordest della Nigeria, quando un ordigno è stato fatto esplodere su un ponte dello stato regionale del Borno.
Cinque soldati maliani sono rimasti uccisi, nella mattinata del 6 gennaio, in un attacco provocato dall’esplosione di una bomba lungo una strada della regione occidentale di Alatona, al confine con la Mauritania.
Tre americani sono morti in un attacco condotto dal gruppo terroristico al-Shabaab, domenica 5 gennaio, contro la base di Camp Simba, nella contea di Lamu, lungo il confine con la Somalia, nel sudest del Kenya. Una delle vittime era un soldato, le altre due erano contractor, dipendenti del ministero della difesa. Il raid aereo è stato condotto all’alba. La base è utilizzata sia da forze armate locali sia statunitensi.
Almeno 14 persone, inclusi 7 bambini, sono state uccise per l’esplosione di un ordigno improvvisato che ha fatto saltare in aria l’autobus sul quale viaggiavano, nel nord del Burkina Faso. L’attentato è avvenuto sabato 4 gennaio. L’autobus colpito faceva parte di un convoglio di tre pullman che in totale trasportava 160 passeggeri.
Diciannove persone sono state ammazzate da uomini armati non identificati in un raid notturno condotto il 3 gennaio contro una comunità rurale nella Nigeria centrale. Non sono ancora identificato i responsabili. Gli aggressori hanno dato alle fiamme le case e gli altri edifici della comunità tawari, nello stato di Kogi, a 100 km a sud della capitale, Abuja.
Sono solo alcune delle notizie di agenzia che raccontano, come in un tragico bollettino di guerra, le azioni terroristiche compiute nell’area subsahariana con l’inizio dell’anno nuovo. E in questo elenco luttuoso sono stati omessi i morti nel conflitto fratricida in Libia e le ondate di violenza di fine anno nella regione darfuriana, nell’ovest del Sudan. O l’attacco del 28 dicembre a Mogadiscio, il più letale degli ultimi 2 anni, quando l’esplosione di un’autobomba in un’area molto trafficata della città, ha fatto andare a fuoco diversi veicoli e bruciato alcuni edifici nelle vicinanze. Il bilancio iniziale delle vittime ammontava a 81 persone. Oppure l’attacco dello scorso 10 dicembre dei seguaci dello Stato islamico nel Grande Sahara (Isgs) alla base militare in Niger nei pressi di Inates, nella regione di Tillaberi, dove sono rimasti uccisi 71 soldati con una dozzina di feriti.
Azioni terroristiche che non si collegano direttamente, così è almeno il giudizio degli analisti, alla crisi in atto tra Stati Uniti e Iran, scoppiata nella sua massima asprezza dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani.
Eppure da anni l’Africa subsahariana è teatro di violenze terroristiche. Nel Corno d’Africa con gli al-Shabaab, nella cintura del lago Ciad con le varie formazioni dei Boko Haram e ora nell’area saheliana, soprattutto con le azioni del Gruppo per il sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), che dall’inizio di marzo 2017 riunisce i gruppi jihadisti affiliati ad al-Qaida attivi nel Sahel.
Il 14 novembre il segretario di stato americano Mike Pompeo avevano lanciato l’allarme: «L’Isis sta puntando sull’Africa occidentale e sulla regione saheliana. È quell’area che merita attenzione». Un allarme a cui non è stato dato seguito. Anzi. A fine 2019 è arrivata la doccia fredda di un possibile disimpegno americano nello scacchiere africano. Il 24 dicembre The New York Times scrive che il segretario alla difesa Mark Esper vorrebbe diminuire il numero di militari presenti nel continente. Washington si accingerebbe perfino a chiudere la base in Niger da cui partono i droni utilizzati per attacchi contro milizie terroristiche e costata 110 milioni di dollari.
È anche vero che gli stessi droni, nonostante il loro uso massiccio, non hanno svuotato o vinto l’azione terroristica. Negli ultimi 3 anni, ad esempio, si sono intensificati i bombardamenti americani nelle aree della Somalia occupate dai miliziani qaidisti. Secondo un rapporto di Africom, le operazioni portate a termine tra il 2017 e il 2019 sono state 148 e i guerriglieri uccisi sarebbero circa mille. Una campagna iniziata già durante l’amministrazione Obama. Ma nonostante l’intensificarsi dei raid, al-Shabaab ha saputo riorganizzarsi continuando a radicalizzare giovani delle aeree rurali.
Gli stessi francesi, presenti nel Sahel con l’operazione Barkhane dal 2014 con 4.500 soldati, un anno fa comunicarono di aver eliminato 600 jihadisti dall’inizio dell’operazione e che ogni trimestre venivano sequestrate due tonnellate di armi e munizioni. Evidentemente un’azione insufficiente per fermare la mano terrorista.
Ma è soprattutto l’attenzione dell’opinione pubblica a mancare. Mentre l’occhio del mondo continua a guardare con preoccupazione ciò che accade nell’area mediorientale, pare preoccuparsi assai poco della lunga scia di sangue (e del lungo elenco di morti) prodotta quasi quotidianamente dalla violenza terroristica nel continente africano.
L’imperterrita monotonia dell’insignificanza.