
È difficile mettere una data di nascita ad un genere musicale e l’afrobeats non fa eccezione.
Nessun cantante ha affisso 95 tesi su una cattedrale di Lagos, la capitale economica nigeriana. Nessun produttore ha rifiutato di cedere il posto ad un bianco in un danfo, gli onnipresenti pulmini gialli al centro del trasporto di massa.
Per l’afrobeats, a volte si prende come evento simbolico il successo del 2005 del cantante 2Baba (in passato noto come 2Face Idibia), con la sua African Queen, prima hit internazionale di una musica che ancora non osava pronunciare il suo nome. Non per paura o timidezza, ma perché lo stesso termine afrobeats, sarebbe stato coniato solo 6 anni dopo.
Ma prima del boom di 2Baba, ci sono almeno una quindicina di anni di storia da vivisezionare, da cui emergono i fili intrecciati di DJ, dittatori, cantanti e produttori.
La fine della parabola dell’afrobeat
Già a partire dagli anni ‘70, la musica nigeriana godeva di una certa fama a livello mondiale, grazie a Fela Kuti e al suo afrobeat (senza la ‘s’ finale).
La quasi omonimia induce a facile confusione, anche se i generi non avevano praticamente nulla in comune. Fela, insieme al batterista Tony Allen, aveva mischiato jazz, funky e soul d’oltreoceano con stili locali, come il ghanese highlife e la nigeriana juju music.
In più, i testi trasudavano arringhe politiche panafricaniste. ‘’Music is the weapon’’ era lo slogan di Fela, che oltre ad essere un musicista e compositore era anche un attivista politico di primo pelo. Le cicatrici sul suo corpo, insieme alle sue canzoni, raccontavano delle numerose volte in cui era stato imprigionato e pestato da militari e poliziotti nigeriani.
Nel 1989 uscì il suo penultimo album Beast of No Nation, uno dei picchi della sua vasta produzione musicale. Ma l’afrobeat era già a fine corsa. Dopo due decenni di regno incontrastato, forse un cambio era fisiologico. Di certo, l’ammalarsi di Fela tolse dalla scena il suo più importante e quasi unico esponente. Nei primi anni ‘90 l’Aids riuscì laddove avevano fallito vari dittatori nigeriani, piegandolo fino alla morte avvenuta nel 1997.
Le note della divisa
Nello stesso periodo, il resto del paese non poteva vantare una forma smagliante, con economia e politica in mano a una giunta militare raffazzonata e cleptocrate. Aggettivi grossomodo validi per tutti i regimi guidati dell’esercito che hanno governato la Nigeria dal 1969 al 1999, con la sola eccezione del periodo 1979-1983.
In quelle condizioni fare affari era difficile per chiunque. Nel settore della musica, si aggiungevano i problemi di pirateria e rispetto del copyright. Sul finire degli anni ‘80, le principali case discografiche internazionali staccarono la spina alle loro operazioni nigeriane, lasciando l’industria musicale locale in uno stato di macerie.
L’unica cosa integra era la voglia di ascoltare musica. Ma anche qui non mancavano gli ostacoli. Le radio costituivano il principale veicolo di diffusione di canzoni e il governo militare imponeva i suoi gusti. Regnavano la musica nigeriana di ispirazione tradizionale e rigorosamente a-politica. Di Fela ne bastava uno.
Risultato: si ascoltavano generi locali come juju, fuji, highlife e poco altro.
«Quando ho iniziato a fare il DJ, non potevo mettere musica nigeriana. Ascoltare la nostra musica non era interessante per i giovani» ricorda il DJ, produttore e pioniere dell’afrobeats Jimmy Jatt, in un’intervista ad Afropop Worldwide. Il suo cuore batteva per rap e hip-hop americani, generi introvabili nelle radio nazionali. Tuttavia si ripeteva che «quella musica non piace solo a me, ma a molte altre persone».
A volte basta una cassa
La messa a verifica della sua ipotesi prese la forma delle feste Road Block (da blocco stradale). Le organizzava ad Obalende, un quartiere popolare di Lagos. Si mettevano delle casse per strada, si montava un palco e partiva la festa. Di solito, non meno di 5,000 persone accorrevano per assistere a rap-battles tra rappers locali, ascoltare hip-hop e qualsiasi altra musica, senza restrizioni di genere. Aveva intercettato una vena musicale.
L’ambiente favoriva la contaminazione. Nelle basi hip-hop o RnB, il pidgin nigeriano sostituiva l’inglese nei testi, mentre la musica incorporava sempre più colori locali. Juju, fuji e highlife tanto cari ai militari trovavano nuove strade. Finivano nel calderone persino i canti delle messe evangeliche, solo per riuscir e fuori trasformati in qualcosa altro di originale e familiare allo stesso tempo.
In quelle feste si mescolavano anche realtà sociali differenti: la gente comune e gli island folks, ovvero ‘i tipi dell’isola’. È un termine gergale che veniva usato per descrivere i giovani provenienti da Victoria Island e Ikeja, i due quartieri più ricchi di Lagos. Indicava giovani che spesso avevano studiato all’estero ed erano particolarmente aperti alla musica internazionale. In più, avevano soldi e connessioni.
La prima hit non si scorda mai
Da qui nacque uno dei primi accordi discografici proto-afrobeat. Era il 1989. A firmarlo, da un lato il duo hip-hop Junior and Pretty, da Surulere, un quartiere popolare di Lagos. Dall’altro, l’island folk Obi Asika. Di quest’ultimo vale la pena sottolineare che: era il figlio dell’equivalente di un ex-Presidente della regione italiana; che aveva frequentato le scuole superiori nel college britannico di Eton (tradizionale fabbrica dell’elite inglese); e che sarebbe diventato un magnate dell’industria dell’intrattenimento nigeriano.
Valore del contratto dell’epoca: 5,000 naira. Somma con cui si potevano comprare si è no una decina di birre. Molte di più se ne poterono permettere dopo l’uscita nel 1991 della canzone Monica, la prima hit nazionale a gemmare dalle feste di strada di Jimmy Jatt.
Onde scatenate
L’anno dopo, nel 1992, avvenne un altro passaggio cruciale: l’allora capo di Stato (sempre un militare) Ibrahim Babangida aprì alle licenze private nel settore radiofonico. La prima radio privata, Ray Power, andò on air nel 1994.
«All’inizio passavamo una valanga di rap e hip-hop americano – spiega l’allora presentatore Kenny Ogungbe ai microfoni di Afropop Worldwide – ma il capo della radio voleva che mettessimo musica locale. Ci spronava a trovare qualche canzone carina, e farla girare. Si aspettava che i musicisti sarebbero venuti a proporci le loro di canzoni.»
E così accadde. Sulle frequenze di Ray Power, Ogungbe, anche noto come Kenny Keke, condusse numerosi programmi – divenuti iconici – dedicati alla nuova musica giovanile e urbana. Insieme a lui c’era un presentatore altrettanto strumentale per quel successo: D1, al secolo Dayo Adeneye.
Il loro sodalizio li portò nel 1998 a fondare l’etichetta discografica Kennis Music, che avrebbe giocato un ruolo chiave nella promozione della scena afrobeats e nella creazione della sua identità sonora. Fu proprio Kennis Music a lanciare la carriera di 2Baba. La sua African Queen, uscita nel 2005, è stata la prima hit continentale.
Quell’anno si portò a casa il premio della neonata categoria ‘’Miglior artista africano’’ degli MTV Europe Awards, amplificando la portata del successo.
Don Jazzy e oltre
Da lì in poi, la crescita dell’afrobeats è stata esponenziale e non accenna a fermarsi. A differenza di questo articolo che, invece, si placa qui, dopo aver scollinato la pubertà di un genere musicale nato all’incirca una quindicina di anni prima. Dopo 2Baba segue una fase nuova, fatta di uno sdoganamento mondiale avviato, dell’arrivo dei social media e dell’evoluzione delle canzoni in una forma più simile a quella attuale. Un altro terreno di gioco.
Strumentale a tutte queste trasformazioni è stato un personaggio ancora ben centrale nel settore: il produttore Don Jazzy. Lui merita un approfondimento a parte. Qui ci limitiamo a dire che è l’uomo dietro artisti come DBanj, P-Square e più di recente la superstar Rema.