È comparso oggi davanti ai giudici il noto attivista kenyano Boniface Mwangi, arrestato il 18 luglio scorso nella sua abitazione a Lukenya, a est della capitale Nairobi e inizialmente accusato di “facilitazione di atti terroristici” e di possesso illegale di munizioni.
In aula sono state ritirate le accuse di terrorismo e confermate quelle per possesso di munizioni senza di porto d’armi. Accuse che Mwangi ha nenato. I giudici hanno accolto la richiesta dei difensori, rilasciando l’attivista dietro al pagamento di una cauzione di 1 milione di scellini kenyani (circa 7.700 dollari), fa sapere la Commissione nazionale per i diritti umani (KNCHR), avvertendo in un post su X che “questa strategia di inventare accuse per molestare e mettere a tacere attivisti come Mwangi erode la fiducia del pubblico nell’indipendenza della Procura della Repubblica e mina lo stato di diritto”.
Le accuse sono legate alle proteste antigovernative del 25 giugno scorso, la violenta repressione delle quali ha causato la morte di 19 persone, secondo la KNCHR. Una nuova manifestazione, il 7 luglio, in occasione del Saba Saba Day, si era conclusa con 31 morti, almeno 107 feriti, 532 arrestati e almeno 2 sparizioni forzate, secondo la stessa fonte.
Nell’abitazione di Mwangi gli agenti del Directorate of Criminal Investigations hanno sequestrato due telefoni cellulari, un computer portatile, diversi notebook e dei quaderni. Altri due computer e degli hard disk sono stati sequestrati nel suo ufficio di Nairobi, secondo quanto dichiarato dagli investigatori, che avrebbero trovato anche “due lacrimogeni inutilizzati e un proiettile a salve da 7,62 mm”. Da qui l’accusa di detenzione illegale di munizioni.
L’arresto dell’attivista ha scatenato un’ondata di proteste online con diversi attivisti che si sono radunati ieri davanti alla stazione di polizia in cui Mwangi era detenuto denunciando la crescente repressione del dissenso e l’utilizzo strumentale della giustizia per far tacere le voci critiche del governo del presidente William Ruto.
«Quello a cui stiamo assistendo è un tentativo di intimidazione da parte della polizia. Hanno già arrestato diversi giovani con l’accusa di terrorismo e incendio doloso. Ora stanno facendo la stessa cosa con mio marito», ha dichiarato la moglie Njeri Mwangi.
«I difensori dei diritti umani e gli attivisti non sono terroristi», ha dichiarato a RFI Hussein Khalid, attivista e direttore dell’ONG Vocal Africa. «Quando protestiamo – ha aggiunto – esercitiamo un diritto costituzionale. Vogliamo assicurare al governo che nessun livello di intimidazione, nessuna minaccia, ci impedirà di esercitare i nostri diritti costituzionali».
Scontro frontale
Lo scontro tra governo e giovani contestatori si è intensificato nelle ultime settimane, quando il presidente ha abbandonato l’atteggiamento conciliante per seguire invece la linea dura della repressione.
Il primo ad etichettare i manifestanti come “terroristi” è stato il segretario agli Interni Kipchumba Murkomen che il 26 giugno aveva emanato una direttiva che ordinava alla polizia di «sparare a vista».
Una mossa avvallata dallo stesso presidente che all’indomani del Saba Saba Day aveva pubblicamente dichiarato che la polizia avrebbe dovuto «sparare alle gambe».
«Sparate per uccidere. Queste non sono persone innocenti, sono criminali … Dovrebbero essere trattati come terroristi», sono state invece le scioccanti parole del presidente della commissione Difesa dell’Assemblea Nazionale, Nelson Koech.
Dichiarazioni e azioni che hanno sollevato sconcerto e preoccupazione in un paese in cui le forze di sicurezza sono già tra le più violente al mondo, protette finora da una sostanziale impunità.
Sono almeno 110 i morti causati dalla violenza della repressione delle proteste dal giugno 2024.
Non solo Kenya
Una tendenza che comune ad altri paesi della regione, Tanzania e Uganda su tutti, che vedono nelle manifestazioni popolari di dissenso, negli attivisti per i diritti umani e nelle opposizioni pericolose minacce al loro status quo.
Lo stesso Boniface Mwangi era stato arrestato e poi espulso a maggio dalla Tanzania, dove si era recato con altri attivisti kenyani e ugandesi per assistere all’apertura del processo contro il leader storico dell’opposizione tanzaniana, Tundu Lissu, accusato di tradimento.
Al suo rientro a Nairobi aveva denunciato di essere stato sequestrato e torturao dalle forze di sicurezza tanzaniane durante la sua detenzione. Accuse che sono state poi depositate sotto forma di denuncia alla Corte di giustizia dell’Africa orientale.
La stessa sorte era toccata all’avvocata ugandese Agather Atuhaire.
Accusa di tradimento anche per un altro storico leader dell’opposizione, l’ugandese Kizza Besige, sequestrato in Kenya nel 2024 e trasferito a Kampala, dove sarà giudicato da un tribunale militare, dopo che il parlamento ha approvato una legge che consente ai tribunali militari di processare i civili, nonostante il precedente divieto imposto dalla Corte Suprema.