Kenya: traffico di esseri umani dai campi di Dadaab ai lager in Libia
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Un’inchiesta di polizia fa luce sui meccanismi della tratta, favorita da un sistema di corruzione radicato, garantito da una sostanziale impunità
Kenya: il traffico di esseri umani dai campi di Dadaab ai lager in Libia
Reclutati attraverso i social media giovani rifugiati tra i 15 e i 24 anni. Poi il viaggio attraverso Uganda e Sud Sudan o dall’Etiopia in Sudan. Nei centri libici le torture per estorcere denaro alle famiglie. Chi non può pagare viene venduto ad altre milizie e in alcuni casi destinato all’espianto di organi
31 Gennaio 2025
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 6 minuti

In Kenya la crescita della povertà dovuta alla crisi economica, innescata dagli effetti del cambiamento climatico, dall’inflazione e dalle politiche di austerity imposte dal governo, ha favorito l’aumento delle attività del crimine organizzato legato al traffico di esseri umani, che sfrutta le fasce più fragili della popolazione, in particolare giovani donne e uomini, bambini e adolescenti.

Noti da tempo i meccanismi che, attraverso agenzie fittizie, portano i malcapitati/e nei paesi del Golfo e del Medio Oriente con la promessa di un lavoro redditizio per poi lasciarli nelle mani di sfruttatori senza scrupoli.

Meno conosciute, almeno qui in Europa, le tratte più brevi, quelle che hanno come mete i paesi limitrofi, dove donne e uomini (ma più spesso ancora bambine e bambini) sono costretti alla prostituzione o a lavori schiavizzati in abitazioni private. Oppure al reclutamento in organizzazioni terroristiche come al-Shabaab in Somalia.

Ci sono poi organizzazioni ancor più strutturate e con connessioni internazionali che portano i migranti in Nordafrica con il miraggio di raggiungere l’Europa.

I campi rifugiati di Dadaab, terreno di caccia 

Su una di queste stanno indagando da mesi gli investigatori della Direzione delle indagini criminali (DCI). Il cartello in questione attinge da quell’enorme bacino di sofferenza e miseria che sono i tre campi di rifugiati e richiedenti asilo di Dadaab, nella contea orientale di Garissa, vicino al confine somalo.

Un complesso nato 34 anni fa e gestito dall’Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR) che ospita attualmente oltre 468mila persone, per lo più provenienti da Somalia e Sud Sudan, oltre la metà delle quali (il 52%) non supera i 17 anni.    

È lì che i trafficanti pescano le loro prede, destinate ai campi di prigionia in Libia. Gli investigatori, riporta il sito d’informazione Kenya Insight, hanno individuato il range d’età privilegiato: tra i 15 e i 24 anni.

Sono giovani spesso poco o per nulla istruiti, ignari del calvario a cui vanno incontro, disperati per la mancanza di prospettive di futuro e per le difficili condizioni di sopravvivenza, esacerbate negli ultimi anni dalle crescenti difficoltà delle agenzie internazionali a fornire sostegno umanitario.

Le indagini hanno rivelato che il processo di reclutamento nei campi inizia tramite un passaparola o attraverso i social media, principalmente TikTok e WhatsApp. Poi, una volta individuato, il “candidato” viene isolato, intimandogli di non rivelare a nessuno, nemmeno ai famigliari più stretti, il suo progetto di emigrare.

Questi giovani sono quindi utilizzati come agenti per ulteriori reclutamenti. Viene chiesto loro di identificare altri coetanei che possano essere interessati al viaggio verso l’Europa.

Le rotte verso la Libia

Un viaggio lungo e rischioso che, secondo gli esperti della DCI, avviene attraversando i porosi confini con Uganda ed Etiopia. Nel primo caso il carico umano passa da Nairobi, oppure da Mombasa, sulla costa, per raggiungere la prima destinazione: Kampala.

Una volta in Uganda i migranti ripartono, diretti in Sud Sudan e poi, da lì, in Libia. C’è anche una terza via, la più breve, che da Isiolo attraversa la contea Turkana e porta il carico umano direttamente in Sud Sudan.

La seconda tratta passa invece dall’Etiopia meridionale e dal Sudan. È il tragitto più rischioso perché attraversa anche zone interessate da combattimenti.

I migranti sono trasportati in condizioni disumane per evitare che vengano scoperti dalle forze di sicurezza. Alcuni muoiono durante il tragitto per fame, per soffocamento o per malattie contratte durante il viaggio.

I lager libici

I sopravvissuti finiscono nei campi di prigionia in Libia, dopo essere stati venduti alle milizie locali. Ed è lì che comincia l’incubo per loro e le loro famiglie. Le milizie che gestiscono i centri e controllano il traffico di migranti li sottopongono a torture di ogni tipo e i video degli abusi vengono inviati ai famigliari in Kenya.

In cambio della fine delle violenze e di un imbarco del congiunto verso l’Europa, i libici chiedono il pagamento di cifre che vanno dai 15 ai 23mila dollari. In caso contrario le vittime vengono lasciate morire o vendute ad altre milizie.

I sistemi di pagamento che chiedono di utilizzare per i trasferimenti del denaro, rivelano ancora le indagini, sono Hawallas e Remitley, considerati più difficilmente tracciabili dalle forze di sicurezza.

Altri migranti, quelli più forti e sani, sono costretti ad unirsi a organizzazioni terroristiche come lo Stato islamico in Libia. Altri ancora sono avviati ai lavori forzati o destinati al prelievo di organi, per pagare i trafficanti.

Commercio di organi

Il traffico illegale di organi destinati al trapianto è un business che ha registrato una crescita negli ultimi anni in Africa. I paesi maggiormente interessati si stima siano Egitto, Nigeria, Sudafrica, Kenya e Libia.

Sulla Libia, in particolare, un allarme per l’aumento del fenomeno è stato lanciato nel febbraio dello scorso anno dal direttore degli Affari Scientifici presso l’International Humanitarian Law Centre, Ahmid Al-Zaidani, che ha chiesto l’apertura di indagini indipendenti sul traffico, «in modo che la Libia non diventi un paese (di riferimento) per le organizzazioni criminali internazionali che commerciano organi umani». Sentito dal Libya Herald, Al-Zaidani ha confermato che «ci sono notizie confermate che le gang internazionali ottengono organi umani appartenenti a migranti illegali da milizie locali».

I destinatari finali degli organi risiedono spesso in paesi del Nordafrica, ma anche in Israele, Stati Uniti, Canada e in paesi dell’Unione Europea.

Un business, quello della tratta di esseri umani per l’espianto illegale di organi che, a livello globale, genera tra gli 840 milioni e 1,7 miliardi di dollari all’anno, secondo stime contenute in un rapporto del 2017 del Global Financial Integrity (GFI), think thank con sede negli Stati Uniti incentrato su corruzione, commercio illecito e riciclaggio di denaro.

Corruzione e impunità

Tornando al Kenya e ai cartelli criminali dediti al commercio di esseri umani, appare chiaro come tale attività illecita non possa svilupparsi senza la complicità di apparati di polizia, funzionari governativi e, in alcuni casi, anche di magistrati. Un sistema di corruzione radicato, favorito da una sostanziale impunità.

Lo dice chiaramente il report 2024 sui traffici di persone del Dipartimento di Stato americano: “La corruzione e la complicità di ufficiali nei reati di tratta sono rimaste preoccupazioni significative, inibendo l’azione delle forze dell’ordine”.

Il documento segnala un caso su tutti: l’arresto, nel febbraio 2024, di quattro agenti di polizia presumibilmente implicati in un caso di tratta che coinvolgeva 37 potenziali vittime etiopi.

Nel documento si legge che “gli agenti di polizia hanno continuato ad accettare tangenti per avvertire i trafficanti di imminenti operazioni e indagini” e che “i colpevoli a volte sono sfuggiti alla condanna corrompendo magistrati e funzionari del tribunale, o intimidendo o pagando testimoni affinché rilasciassero false dichiarazioni”.

Si osserva inoltre che “i cartelli criminali hanno colluso con vari dipartimenti di polizia e immigrazione, compresi quelli ai posti di blocco di frontiera e negli aeroporti, per trasportare impunemente le vittime della tratta”. I trafficanti, prosegue ancora il report, “hanno continuato a ottenere facilmente da funzionari complici documenti di identità falsi” utilizzati per facilitare gli spostamenti loro e delle loro vittime.

Tutto questo, fanno notare ancora i ricercatori statunitensi, senza che il governo abbia mai intentato alcuna azione legale nei confronti dei funzionari corrotti.

Nonostante i notevoli sforzi compiuti, conclude quindi il rapporto, “il governo del Kenya non soddisfa pienamente gli standard minimi per l’eliminazione del traffico”. (MT)

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