La casa della fame - Nigrizia
Libri
Dambudzo Marechera (Traduzione di Eva Allione)
La casa della fame
Racconti, 2019, pp. 124, € 13,00
26 Maggio 2020
Articolo di Raffaello Zordan
Tempo di lettura 3 minuti
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Non è arruolabile. Inutile tentare di collocarlo in una qualche giusta causa. Si perde tempo a volerlo confinare nella terra di nessuno che è la malattia mentale. L’incedere delle pagine travalica gli orizzonti ideologici che delimitano le esistenze ordinarie, alla ricerca di una vita che stia in piedi senza appoggiarsi alle stampelle delle ritualità sociali, delle inadeguatezze famigliari, delle lotte di classe, delle diseguaglianze, delle identità cucite sul colore della pelle.

Un individuo esigente e conflittuale prima di tutto con sé stesso, non un soldatino, è ciò che troviamo in questa sorta di testamento. L’autore, intellettuale con studi all’Università di Oxford, è nato nella Rhodesia meridionale nel 1952 ed è morto nello Zimbabwe (il nome del paese indipendente dal 1980) nel 1987.

Il libro va affrontato come se ci trovassimo fosse di fronte ai quadri di un’esposizione: ogni singolo dipinto ha una propria schiva interiorità e un proprio ritmo, e richiede uno sforzo interpretativo. Solo che qui a esporsi tra le righe sono il corpo e la psiche di Marechera. Tentare di parafrasarlo sarebbe un esercizio di presunzione, meglio attingere direttamente. Lui e l’amico Harry.

«Uscimmo dal negozio di liquori a braccetto, come dovevano aver fatto Giuda e Gesù dopo aver scoperto l’uno il segreto dell’altro. Il sole picchiava placido fra i turbini di polvere. I nugoli di mosche del vicino cesso pubblico ronzava il coro dell’Alleluia di Händel. Era un ritratto quasi perfetto della condizione umana».

La schizofrenia. «Non potevano essere gli eroi neri che cercavo; o forse invece sì. Non lo so. Erano in quattro: tre uomini in vesti lise e una donna dallo scialle stinto. (…) Al principio si limitavano a seguirmi a scuola senza dire niente, se ne stavano lì. Nudi e crudi. Parlavo con gli amici e di colpo mi accorgevo che vicino gli amici c’erano loro».

Educazione di base del figlio di un becchino e di una bambinaia. «C’era ancora la convinzione che se non picchiavi tua moglie voleva dire che non le volevi bene. Queste botte (non del tutto monodirezionali, a giudicare dal vicino che ci aveva provato e si era ritrovato a pezzi all’ospedale per neri a causa della non troppo sottomessa mogliettina) venivano sempre salate e impepate dalle reciproche accuse dei partecipanti in materia di condotta morale».

L’editore, che ha il merito di aver ripescato questa opera che risale al 1978, ha allegato una “intervista dell’autore con sé stesso” realizzata nel 1983. All’auto domanda, chi ti ha influenzato come scrittore, risponde che sono stati gli abitanti di Rusape «la fogna ribollente in cui sono cresciuto e in cui tutti hanno provato a fare qualcosa delle loro vite. Sono stati loro a influenzarmi col loro dolore, i tradimenti, le gioie e le sconfitte».

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