
Probabilmente una delle cronache più potenti che stanno riguardando il vertice delle Nazioni Unite sul clima – la Cop 27 ospitata in Egitto – sarà quella di oggi. Una cronaca che cancella di botto promesse e rassicurazioni che alcuni leader mondiali non hanno fatto mancare.
Questa cronaca è contenuta in un rapporto dal titolo Chi sta finanziando l’espansione dei combustibili fossili in Africa? Titolo eloquente e non retorico. Le risposte sono certe e sono, appunto, contenute in questo documento presentato nel decimo giorno del vertice più atteso dell’anno. Un lavoro di Urgewald, Stop Eacop, Oilwatch Africa, Africa Coal Network e altre 33 Ong africane. Tutte impegnate in ricerche e attività di denuncia su violazioni dei diritti umani e danni ambientali.
Un rapporto che fa rumore e che svela le ipocrisie, i proclami, piani e politiche fatti da chi in realtà non può non essere al corrente di quanto realmente accade. E che cioè la corsa ai combustibili fossili in Africa è in pieno svolgimento e coinvolge – dice il report – 200 aziende che stanno esplorando o sviluppando nuove riserve di combustibili fossili e nuove infrastrutture come terminali di gas naturale liquefatto (Gnl), gasdotti o centrali elettriche a gas e carbone.
Compagnie petrolifere, del gas e del carbone – e dietro ciascuna di loro ci sono banche, investitori e assicuratori, che forniscono le basi finanziarie per questi piani di espansione dei fossili – stanno lavorando in 48 dei 54 paesi africani. Anche trivellando in aree naturalistiche o a ridosso di zone patrimonio dell’Unesco.
Gas africano estratto da società straniere per mercati esteri
Il report rivela che l’89% della nuova capacità di Gnl in Africa è prevista per l’esportazione (principalmente in Europa e Asia) e che investitori internazionali detengono oltre 109 miliardi di dollari in società che guidano l’espansione dei combustibili fossili in Africa.
Insomma: «progetti di energia sporca che sono completamente incompatibili con gli obiettivi climatici di Parigi e il limite di 1,5° centigradi», afferma Omar Elmawi, coordinatore della campagna Stop Eacop. Così, mentre i delegati stanno negoziando al summit ospitato a Sharm El-Sheikh, 55 aziende sono impegnate nella ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas nel solo Egitto.
Ma non è da oggi che accade: è dal 2017 che in 886mila km2, un’area più grande di Francia e Italia messe insieme, sono stati autorizzate nuove esplorazioni di petrolio e gas. Dei 45 paesi africani, dove l’industria petrolifera e del gas sta attualmente cercando nuovi reperti, 18 sono quelli che l’industria chiama “paesi di frontiera”, cioè paesi come la Namibia, l’Uganda o la Somalia che hanno poca o nessuna produzione esistente di petrolio o gas.
Cose che accadono e che accadranno con scarsi vantaggi per il continente africano. Nel rapporto si citano, infatti, i dati di Rystad Energy che mostrano che le spese in conto capitale totali per l’esplorazione di petrolio e gas in Africa sono passate da 3,4 miliardi di dollari nel 2020 a 5,1 miliardi di dollari nel 2022. E le società africane hanno rappresentato meno di un terzo di questa somma.
La maggior parte dell’esplorazione di nuove risorse di petrolio e gas in Africa viene effettuata e finanziata da società straniere. Il fatto è che “ogni dollaro speso per nuove esplorazioni di petrolio e gas va contro la tabella di marcia di 1,5° definita dall’Agenzia internazionale per l’energia nel 2021”, afferma Heffa Schuecking, direttrice della tedesca Urgewald.

Total, Sonatrach ed Eni in pole position
Ma quali società stanno pianificando i maggiori investimenti per garantirsi la maggior quantità di nuove risorse di petrolio e gas prima del 2030 in Africa? Prima fra tutte è la francese TotalEnergies che già ottiene il 25% della sua produzione di idrocarburi dall’Africa e si prepara ad aggiungerne ancora: fino a 2,27 miliardi equivalenti di barili di petrolio. L’estrazione e combustione di queste risorse equivarrebbero a tre anni di emissioni annuali di gas serra della Francia.
Al secondo e terzo posto ci sono la compagnia petrolifera e del gas algerina di proprietà statale Sonatrach (1,75 miliardi di barili di petrolio) e la major petrolifera italiana Eni (1,32 miliardi di barili). Complessivamente, le compagnie petrolifere e del gas si stanno preparando ad aggiungere almeno 15,8 miliardi equivalenti a barili di petrolio ai loro portafogli di produzione in Africa prima del 2030.
A livello di danni ambientali questo vuol dire 8 Gigaton di CO2eq (unità di misura che esprime l’impatto sul clima dei diversi gas serra) rilasciati nell’atmosfera a causa delle operazioni di estrazione e combustione. Più del doppio della quantità che i paesi dell’Unione Europea emettono ogni anno.
Le infrastrutture per combustibili fossili come condutture e terminali Gnl sono costose da costruire e così – dati alla mano – quelle della TotalEnergies costeranno oltre 5 miliardi di dollari per funzionare almeno 20 anni. Mentre, per esempio, il progetto Rovuma Gnl di ExxonMobil ed Eni in Mozambico e il progetto Tanzania Gnl di Equinor (parte del contestato progetto Eacop) sono stimati ciascuno in 30 miliardi di dollari, funzionamento 30 anni.
Progetti che genereranno miliardi di dollari ma che di fatto bloccheranno le speranze di lavorare verso le fonti rinnovabili. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, “ottenere il pieno accesso all’energia moderna in Africa entro il 2030 richiederebbe investimenti per 25 miliardi di dollari l’anno”, una cifra paragonabile al costo di un solo grande progetto Gnl.
Le compagnie petrolifere e del gas estere stanno investendo in nuovi terminali Gnl – che aumenteranno la capacità finora esistente del 116% – con una capacità combinata di oltre 87 milioni di tonnellate all’anno. “La dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili è uno dei principali motori dietro i nuovi progetti di Gnl in Africa. La corsa per il petrolio e il gas dell’Africa non ha nulla a che fare con l’aumento dell’accesso all’energia per gli africani”, afferma AnabelaLemos, direttore di Justiça Ambiental (Amici della Terra Mozambico).

Il miraggio della decarbonizzazione
E anche l’industria del carbone continua ad espandersi nel continente. Miniere e infrastrutture di trasporto del fossile sono già pianificate o in fase di sviluppo in 11 paesi africani. Nello Zimbabwe, per esempio, è previsto un grosso piano di sfruttamento del combustibili. E questo in un paese dove il 47% della popolazione non ha accesso all’energia elettrica.
Attualmente sono in azione 70 nuove miniere di carbone in 9 paesi africani. Tra quelli che ne contano il maggior numero il Sudafrica (49), Zimbabwe (6), Botswana (5) e Mozambico (4). E questo nonostante l’Africa abbia un grande potenziale di ricavare energia dalle rinnovabili.
Nel report si legge che a luglio 2022 oltre 5mila investitori istituzionali detenevano azioni e obbligazioni per un totale di 109 miliardi di dollari in aziende che sviluppano nuovi progetti di combustibili fossili in Africa.
Il più grande investitore istituzionale nell’espansione dei combustibili fossili in Africa è il gigante statunitense degli investimenti, BlackRock, con partecipazioni di oltre 12 miliardi di dollari. Altri sono Vanguard (8,4 miliardi di dollari) e il Fondo pensioni del governo norvegese (3,7 miliardi di dollari).
Soldi da membri della Net Zero Banking Alliance
Anche le banche commerciali hanno incanalato un sacco di denaro alle aziende che sviluppano nuovi progetti fossili in Africa. Parliamo di oltre 98 miliardi di dollari tra gennaio 2019 e luglio 2022. Anche banche italiane sono in lista: la UniCredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), che sostengono i progetti oil&gas, in particolare di Eni, nel continente.
Inoltre, secondo il rapporto, il 71% del sostegno bancario per gli sviluppatori di combustibili fossili in Africa proviene da banche che sono membri della Net Zero Banking Alliance di cui fanno parte anche banche italiane.
ReCommon, che ha partecipato alla realizzazione del rapporto, sottolinea che la principale multinazionale italiana, Eni, e le due banche di sistema, Intesa Sanpaolo e UniCredit, svolgono un ruolo di primissimo piano in questa operazione di esplorazione e sviluppo di nuove riserve di combustibili fossili in Africa.
Nel 2021, Eni è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività in Africa. Il 59% della produzione globale del cane a sei zampe arriva infatti dal continente africano e si prevede un aumento nei prossimi anni di 1,32 miliardi di barili. 14 i paesi africani dove l’Eni è presente. Tra questi Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, Angola e Mozambico.
Proprio questo paese – e proprio nelle aree più ricche di gas – sta subendo da anni un’insurrezione armata guidata da un movimento jihadista che dal 2017 ha causato oltre 4mila vittime e 800mila sfollati. Nel luglio scorso ne è rimasta vittima anche la suora comboniana Maria De Coppi.

Zero benefici per gli africani
«Questa corsa al gas africano come risposta alla crisi energetica che sta interessando l’Europa non promette bene e sicuramente non troverà punti di svolta nell’ambiguo vertice sul clima di Sharm el-Sheikh», commenta Daniela Finamore, campaigner finanza e clima di ReCommon. Lo sfruttamento del territorio sta non solo depauperando il continente ma è anche alla base di conflitti e guerre civili.
L’attuale corsa al petrolio e al gas dell’Africa – si legge infine nel rapporto – non porterà l’aumento dell’accesso all’energia per gli africani. I suoi profitti fluiranno in modo schiacciante verso un’élite globale, mentre le comunità locali saranno nuovamente lasciate ad affrontare l’inquinamento, l’impoverimento e le violazioni dei diritti umani che sono il segno distintivo dello sviluppo dei combustibili fossili e a carbone in Africa.