
Nel gergo carcerario “la battitura” è il gesto dei secondini che battono il manganello contro le sbarre delle celle per verificare che tutto sia in ordine. L’8 marzo del 2020, con l’Italia annichilita dalle prime morti causate dal Covid, il suono metallico e stanco dei manganelli sulle sbarre viene travolto dalla rabbia dei detenuti esplosa in decine di carceri in tutta Italia.
Una rivolta di massa innescata dai primi contagi tra persone che, ammassate in stanze di pochi metri quadri, non possono tenersi a distanza. I colloqui con gli esterni vengono così interrotti, i permessi congelati. “A chi non ha voce resta solo il rumore”, e al rumore seguiranno giorni di devastazione, violenze, pestaggi, morti.
I detenuti deceduti saranno tredici: nove nel carcere di Modena, tre in quello di Rieti e uno in quello di Bologna. Dal dopoguerra per il nostro paese è stata la strage dietro le sbarre con più vittime.
Domande senza risposta
I fatti di Modena vengono ora ricostruiti nel podcast “La Battitura”, scritto e condotto dai giornalisti del Tg1 Perla Dipoppa e Alessio Zucchini e disponibile su RaiPlay Sound. Sei episodi che riavvolgono il nastro di un caso archiviato troppo in fretta, con le testimonianze di detenuti, agenti della penitenziaria, operatori sanitari, familiari, l’analisi di documenti inediti, tentativi di risposta a domande che finora non ne hanno avute, in attesa dell’esito di un ricorso presentato dai legali di una delle vittime di Modena alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Cosa è accaduto nel carcere Sant’Anna l’8 marzo di cinque anni fa e nelle 72 ore servite alle forze dell’ordine per riprendere il controllo della struttura? I detenuti hanno perso la vita per l’overdose da farmaci che avevano rubato nell’infermeria come hanno finora stabilito le indagini? Cosa si poteva e doveva fare di più per evitare questa mattanza?
Dei 9 morti di Modena uno era italiano, Salvatore Piscitelli, uno moldavo, Artur Iuzi, e gli altri sette nordafricani: cinque tunisini – Hafedh Chouchane, Ali Bakili, Slim Agrebi, Ghazi Hadidi, Lofti Bem Mesmia – e due marocchini – Erial Ahmadi e Abdellha Rouan. «I protagonisti di questa storia sono gli ultimi degli ultimi» spiega Perla Dipoppa. «All’inizio si era parlato di una regia della criminalità organizzata, in realtà è accaduto il contrario. Proprio nelle carceri dove è più forte la presenza della criminalità organizzata infatti non è successo niente. Ci sono stati più disordini, invece, nelle carceri con più detenuti finiti dentro per reati minori, come spaccio o piccoli furti».
Non a caso il magistrato Catello Maresca, già sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia, in riferimento a questi fatti ha parlato di “rivolta dei terzi letti”. «Nei terzi letti dormono immigrati, tossicodipendenti, spesso tutte e due le cose insieme come nel caso di alcune delle vittime di questa strage» continua Perla Dipoppa. «Sono persone che hanno le famiglie lontane, con nessuno che li va a trovare. La rivolta di Modena è stata qualcosa di brutale, c’è stato chi ha devastato per devastare, per rabbia, per frustrazione, per rubare farmaci e metadone. Ma è stata anche gestita molto male e questo è l’aspetto da indagare».
Chi difende i morti di Modena
La sorella e il fratello di una delle vittime, il tunisino Ali Bakili, sentiti dagli autori del podcast, denunciano di non essere mai stati avvisati dal carcere della morte del fratello, né di essere stati contattati per riconoscere la sua salma. «Lo hanno scoperto tramite un loro conoscente» dice Perla Dipoppa. «La sorella tuttora non è convinta che il fratello sia morto. Non sono stati contattati e questo è disumanizzante. Nessuno ha pensato di cercare le famiglie delle vittime come invece dovrebbe accadere secondo il protocollo. La scusa usata è stata quella del Covid».
Grazie all’impegno e a una raccolta fondi organizzata da diverse associazioni, tra cui il Comitato verità e giustizia per la strage del Sant’Anna di Modena, il corpo di Hafedh Chouchane è stato riesumato da un cimitero fuori città in cui era stato sepolto insieme a quelli delle altre vittime e fatto arrivare ai famigliari in Tunisia.
Luca Sebastiani è l’avvocato della famiglia Chouchane. Conosceva Hafedh di persona e ad oggi resta l’unico legale ad avere rapporti diretti con i famigliari delle vittime. Spiega che i filoni sulla vicenda procedurale sono tre. «Il primo riguardava lo stabilire le cause del decesso delle otto vittime straniere nel carcere di Modena per le quali la procura ha chiesto e ottenuto dal Gip l’archiviazione con la conclusione che le morti sono avvenute per overdose e senza ravvisare alcun tipo di responsabilità omissiva a causa della straordinarietà della situazione contingente, il cosiddetto rischio eccentrico», dice.
In questo elenco non figura l’italiano Salvatore Piscitelli: essendo deceduto dopo essere stato trasferito nel carcere di Ascoli, il suo caso è ricaduto sotto quella procura e anche lì è stato archiviato.
Il secondo filone è relativo alle presunte torture subite dai detenuti e vede indagati più di cento agenti della polizia penitenziaria. La procura di Modena ha chiesto l’archiviazione a distanza di quattro anni dai fatti ma in questo caso il Gip non l’ha concessa, obbligando la procura a effettuare nuove indagini così come richieste dalle difese delle persone offese.
Il terzo filone, infine, rimanderebbe alle accuse mosse contro i rivoltosi che hanno distrutto il carcere di Modena. Questa indagine tuttavia, a distanza di più di cinque anni dai fatti, resta ancora coperta dal segreto istruttorio.
«L’Autorità giudiziaria, complice probabilmente il particolare momento storico e la circostanza che si trattasse di vittime straniere e senza legami familiari, nel momento in cui ha conferito l’incarico al medico legale per procedere all’autopsia, non ha avvisato, come invece previsto, i familiari» prosegue Sebastiani. «Non avendo ricevuto alcuna notizia, nessuna delle famiglie ha nominato un difensore che potesse partecipare all’incarico peritale e, soprattutto, alla formulazione dei quesiti che i medici legali avrebbero dovuto chiarire».
Di conseguenza il medico legale nominato non ha potuto accertare se il ritardo nei soccorsi avesse avuto un’incidenza causale nei decessi, così come procedere alle ulteriori verifiche che un medico legale dei familiari avrebbe ritenuto opportune.
Presa in mano la difesa di Hafedh Chouchane, Sebastiani presenta opposizione alla richiesta di archiviazione del caso da parte della procura di Modena. A farlo per le altre otto vittime sono invece l’associazione Antigone e il Garante nazionale dei detenuti. Quando la richiesta di archiviazione viene accolta dal Gip, Sebastiani è l’unico a potersi appellare alla Corte europea in rappresentanza dei famigliari del suo assistito.
Predispone il ricorso insieme alla giurista Barbara Randazzo e al costituzionalista Valerio Onida, scomparso nel maggio del 2022. «Abbiamo depositato il ricorso nel dicembre del 2021» dice. «La Corte europea ha già ritenuto ammissibili i quesiti che abbiamo posto e ha posto delle domande allo stato italiano. Adesso si è chiusa la fase istruttoria e la Corte è chiamata alla decisione sul caso. Qualora dovesse ravvisare profili di mancanza di carattere generale, il caso di Hafedh potrebbe avere effetti anche sugli altri e portare anche a una riapertura dei rispettivi procedimenti».
Carceri in Italia, emergenza senza fine
In attesa di sviluppi l’Italia resta un paese alle prese con un’emergenza carceri senza fine. Lo ha denunciato pochi giorni fa “Senza respiro”, l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone secondo cui con 91 suicidi il 2024 è stato l’anno con più morti in carcere di sempre. E tra gennaio e maggio di quest’anno i suicidi sono già stati almeno 33.
«Le morti di Modena potevano essere evitate», riprende Perla Dipoppa. «Come spiega nel nostro podcast una tossicologa, morire per overdose da metadone è difficile perché è una morte che sopravviene molto lentamente, motivo per cui c’è tutto il tempo per salvare una persona». Per farlo viene usato il Narcan, “l’antidoto”, un farmaco che blocca gli effetti degli oppioidi specie in caso di depressione respiratoria. Ma non solo.
Dai documenti passati al setaccio nel podcast emerge che nelle ore convulse della rivolta al carcere di Modena la polizia penitenziaria ha ricevuto l’ordine di lasciare le chiavi di celle e uffici ai detenuti per evitare che la situazione degenerasse ulteriormente. Tra quelle chiavi c’erano anche quelle che davano accesso all’infermeria.
«I detenuti hanno così potuto prendere una quantità enorme di metadone» continua Perla Dipoppa. Una volta ristabilito l’ordine, sarebbe bastato tenere in pronto soccorso o sotto osservazione quelli che avevano assunto il metadone per salvarli. «Invece sono stati trasferiti in altre carceri in giro per l’Italia: alcuni sono morti nel tragitto oppure quando sono arrivati a destinazione».
Affiorano poi anche testimonianze discordanti sugli orari dell’intervento dei soccorsi una volta sedata la rivolta. «Anche questo è un aspetto fondamentale. L’effetto del metadone ha una lunga latenza. In base agli orari di intervento si può stabilire se si è fatto il necessario per soccorre le persone andate in overdose. Qui però gli orari non tornano e neanche le ricostruzioni. Come diciamo nel trailer del podcast del carcere non interessa a nessuno. Il sistema carcerario in Italia è pensato così: mettiamo i detenuti fuori dalla nostra vista e buttiamo la chiave».
È accaduto a Modena e continua ad accadere ogni giorno in tutta Italia.