
Con oltre 38 stati costieri e insulari e oltre 40mila km di costa, il potenziale oceanico dell’Africa è immenso. Ma immensi sono anche i problemi che questa parte di territorio e le sue popolazioni stanno affrontando da anni.
Problemi legati alle erosioni, per esempio, provocate dalla crisi climatica. Ma anche da scelte sbagliate e dannose di governi e imprese internazionali che più che alla salvaguardia dell’ambiente e al benessere delle comunità puntano al profitto.
C’è poi l’alto livello di inquinamento che avvelena le coste e gli ecosistemi e, non da ultimi, il problema dell’insicurezza marittima dovuta alla pirateria, che minaccia la pace e la pesca di frodo.
L’Africa ospita una delle biodiversità marine più ricche al mondo, rotte marittime strategiche e vaste risorse acquatiche. Sarebbero dunque necessari interventi urgenti per proteggere ad ogni livello gli oceani e sfruttarne in modo sostenibile le risorse.
Azioni urgenti: investire in multilateralismo, ricerca e politica
Se ne è parlato durante cinque giorni di incontri e dibattiti nell’ambito della terza Conferenza organizzata dalle Nazioni Unite sul tema (UNOC-3). Tre sono i principali risultati emersi da queste giornate. Il primo è la spinta al multilateralismo. Oltre 170 paesi hanno adottato all’unanimità una dichiarazione politica che chiede azioni urgenti per conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani.
Altro elemento importante riguarda il contributo scientifico. Oltre 2mila scienziati si sono radunati a Nizza, in occasione dell’evento e nella dichiarazione politica adottata si chiedono maggiori investimenti nella scienza.
Infine, c’è un aspetto che riguarda la politica internazionale. A margine degli incontri si è parlato molto del Trattato sulla biodiversità marina che mira a proteggere aree dell’oceano che non sono sotto la giurisdizione nazionale di un singolo paese. Un Trattato che ha ricevuto un notevole impulso a Nizza con 19 ratifiche aggiuntive e 20 firme in più, avvicinando quindi sempre più l’entrata in vigore di questo importante accordo che proteggerebbe circa due terzi degli oceani.
Le situazioni da affrontare sono molte. Come ricordano gli esperti, l’Oceano Atlantico e i suoi estuari, lagune e insenature “non sono mai stati trattati con tanta negligenza come oggi”. Questo perché si registra un aumento astronomico delle attività di esplorazione e sfruttamento, sia per gli idrocarburi al largo che per il saccheggio indiscriminato di altri beni.
L’oceano e gli altri corpi idrici continuano a essere soggetti a diversi regimi estrattivi, che sono all’origine dell’inquinamento e della pesca eccessiva e della pesca illegale, non regolamentata e non dichiarata. Questo determina inoltre violazioni dei diritti umani contro le popolazioni che vivono lungo le coste e contro coloro le cui economie sono legate all’oceano. Un caso emblematico è quello dei giacimenti offshore di BP nelle acque al confine tra Senegal e Mauritania.
Proprio come l’Atlantico, l’Oceano Indiano si trova ad affrontare una miriade di problemi, tra cui l’inquinamento da plastica, anche in questo caso la pesca illegale, le problematiche legate al cambiamento climatico e i conflitti storici per la giurisdizione e il controllo.
Non bisogna dimenticare che l’Oceano produce oltre la metà dell’ossigeno mondiale e assorbe 50 volte più anidride carbonica dell’atmosfera. La sua salute è dunque fondamentale per la sopravvivenza.
Principali minacce: plastica, idrocarburi e pesca
Ma veniamo nello specifico ai principali problemi che affliggono gli oceani che bagnano il continente africano e ne minano la salute. Uno dei principali sono i rifiuti della platica. Milioni di tonnellate di plastica si riversano ogni anno negli oceani andando non solo a contaminare le acque ma anche la fauna marina che ne ingerisce i frammenti.
Altro problema è l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse petrolifere in paesi ricchi di petrolio come la Guinea Equatoriale o la Nigeria, per esempio. La fuoriuscita di petrolio greggio e di prodotti petroliferi e lo scarico di rifiuti e sostanze chimiche non trattate negli ecosistemi marini rappresentano una delle principali fonti di metalli pesanti potenzialmente tossici all’oceano.
Lo sfruttamento incontrollato e continuo delle riserve ittiche locali da parte di pescherecci stranieri riguarda ormai oltre il 50% degli stock ittici. E da un lato impoverisce i mari, dall’altro le comunità. Specie ittiche un tempo abbondanti, come il tonno rosso, sono sempre più a rischio di estinzione.
Senza contare che la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata costa alle economie dei paesi dell’Africa occidentale fino a 2,3 miliardi di dollari all’anno.
Oceani sempre più acidi
Un’altra questione critica è quella della cosiddetta “acidità oceanica”, una riduzione del pH degli oceani protratta nel tempo. È causata dall’assorbimento di anidride carbonica (CO₂), gas serra emesso dalle attività umane.
Il pH medio degli oceani è attualmente intorno a 8,1 ma man mano che l’oceano assorbe più anidride carbonica, il pH diminuisce e l’oceano diventa più acido. Questo ha contribuito alla perdita di coralli su scala globale, poiché i loro scheletri di calcio sono indeboliti dall’acqua più acida.
Inoltre, erode e compromette anche la formazione dei gusci dei molluschi. Insomma un vero e proprio mutamento nell’ecosistema delle acque costiere.
Soluzioni: più Blue economy e controlli
Uno dei modi per affrontare queste questioni è stimolare sempre più la blue economy. Un modello di economia (e di sviluppo) che promuove l’uso sostenibile delle risorse oceaniche per la crescita economica, il miglioramento dei mezzi di sussistenza e la creazione di posti di lavoro, preservando al contempo la salute degli ecosistemi marini.
Ma non basta. Occorrono controlli, applicare i protocolli di salvaguardia e tutela che già esistono, essere sistematici nell’applicazione di leggi che pure esistono. La conferenza di Nizza ha solo confermato tutto questo.