
Il cerotto che tengono sulle loro bocche è simbolico. Vuole raccontare di una categoria, quella dei 237 giornaliste e giornalisti palestinesi uccisi in Medioriente dal 7 ottobre 2023, cui si è cercato di imporre il silenzio tramite la morte.
Perché nel mirino delle bombe, missili, fucili e droni israeliani ci sono loro, i colleghi e le colleghe che vivono a Gaza. E a ricordare questo, l’esser diventati bersaglio sono invece le magliette, indossate da chi ieri, in un’assolata domenica pomeriggio, stazionava sotto la statua di san Francesco, davanti a quella piazza san Giovanni che attendeva la cerimonia del Corpus Domini.
Magliette bianche, con al centro un mirino rosso che ha sotto la scritta PRESS. Magliette bianche, con stampata dietro una frase, che si ripete in italiano e inglese: journalists are not targets, i giornalisti non sono bersagli.
A terra invece uno striscione e bandiere della Palestina, foto di alcuni giornalisti e giornaliste uccise, il lungo elenco dei loro nomi. E poi il racconto delle loro storie, fatto da voci che si alternano al microfono, dando vita a una staffetta di memoria e denuncia.
Così, il gruppo “Operatori e operatrici dell’informazione per Gaza” ha pensato di mettere in scena un flash mob che punta il dito su quella che a oggi è una strage mai vista nel mondo del giornalismo. Mai con questa entità, neanche sommando le guerre mondiali.
A dirne l’enormità è il numero, il breve tempo e lo spazio in cui sta avvenendo. Un numero mai così alto da quando il Committee to Protect Journalists, l’organizzazione indipendente e no-profit nata nel 1981 per promuovere la libertà di stampa nel mondo, tiene i conteggi dei morti tra chi si occupa di informazione.

Operatori e operatrici dell’informazione per Gaza
Il gruppo sceso in piazza è una rappresentanza di una realtà più ampia, composta da 260 giornalisti, giornaliste, fotoreporter e videomaker che si sono chiamati l’un l’altra in una chat, per comprendere cosa si poteva fare insieme, come categoria che pesa il silenzio, la disinformazione, l’omissione di alcune parole.
Il primo passo, qualche settimana fa, era stato quello di condividere un testo comune che invitava le redazioni dei media italiani in cui lavorano o collaborano a prendere posizione su quanto sta avvenendo a Gaza, e una proposta: destinare una giornata di salario ai colleghi e alle colleghe palestinesi che continuano imperterriti a cercare di portare avanti il diritto/dovere di informare.
Due iniziative cui però si affiancava la necessità di una visibilità ulteriore, il bisogno di far sapere alle colleghe e i colleghi che operano in Palestina che da questa parte c’era e c’è chi vuol essere cassa di risonanza, testimonianza di vicinanza: «Vi saremo grati in eterno, per il sacrificio estremo con cui voi e le vostre famiglie avete aperto gli occhi al mondo. Faremo il possibile perché questo sacrificio non sia stato inutile».
«Sappiamo da tempo che la scritta “press”, che in altri contesti serve a indicare e quindi tutelare chi opera nel mondo dell’informazione, in Palestina è diventata un bersaglio da colpire. Proprio come indicato dalle nostre magliette. E nessuno parli di vittime collaterali: come sottolineato da Reporters sans Frontieres o da Human Rights Watch, sono decine i casi documentati in cui l’esercito israeliano ha deliberatamente preso di mira e ucciso i giornalisti palestinesi o i loro familiari.
Spesso con l’utilizzo di nuovi, spietati strumenti digitali di guerra, che individuano gli obbiettivi da colpire attraverso l’uso di algoritmi e database basati sull’intelligenza artificiale. Hamza Dahdou e Hossam Shabat, entrambi di Al Jazeera, sono stati ammazzati mentre viaggiavano sulle loro auto proprio grazie a questi moderni, impersonali mezzi di sterminio.
Alcune uccisioni, poi, Israele le ha addirittura rivendicate: basti pensare ad Hassan Aslih e alla strage di giornalisti del 7 aprile 2025, davanti all’ospedale Nasser. Il tutto, mentre Tel Aviv impedisce ai media internazionali di accedere alla Striscia, nonostante siano 4mila le richieste arrivate dalle testate di tutto il mondo.
Rispetto al teatro di guerra israeliano, successivo all’attacco all’Iran, reporter internazionali denunciano che «l’accesso ai siti israeliani colpiti è riservato ai soli operatori israeliani. Agli altri è impedito di fotografare, riprendere».
«Gaza non esiste più», è stato ribadito più volte durante il flash mob e «quello in corso davanti ai nostri occhi è un genocidio, durante il quale Israele ha ucciso 237 giornaliste e giornalisti, videomaker e fotoreporter. Ma è proprio grazie a questi 237 colleghe e colleghi che abbiamo saputo cosa realmente è accaduto e accade nella Striscia, visto che Israele, pur dichiarandosi “l’unica democrazia del Medioriente”, impedisce ai media internazionali di accedere, oltre a colpire a morte i giornalisti palestinesi e le loro famiglie».

No a un doppio standard
Accanto al riconoscimento e alla vicinanza, gli Operatori e operatrici dell’informazione per Gaza hanno poi dichiarato il proprio rifiuto verso un «“doppio standard” per cui esistono vittime di serie A, con nomi e storie da ricordare, e vittime di serie B, considerate numeri senza identità».
«Respingiamo la narrazione che riduce il conflitto mediorientale agli eventi successivi al 7 ottobre 2023, ignorando un contesto di tensioni e violenze che si protrae da decenni nei territori israelo-palestinesi; rifiutiamo l’utilizzo strumentale della parola “antisemitismo” e dell’aggettivo “antisemita” come armi per silenziare ogni critica a Israele.
Denunciamo ogni forma di censura e rivendichiamo la libertà di utilizzare il termine genocidio, visto che quanto sta avvenendo a Gaza e in Cisgiordania non è una guerra, oltre a ribadire che un ostaggio non è tale solo se israeliano (le Israel Defense Forces hanno sequestrato 17mila palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, tra loro 1.400 sono minori)».
Alla denuncia poi sono seguite le richieste: «Chiediamo il rispetto del diritto internazionale e iniziative concrete perché Israele cessi i bombardamenti, si ritiri dalla Striscia e lasci gestire gli aiuti a Gaza dalle Nazioni Unite e da organizzazioni internazionali autorevoli.
Chiediamo che Italia e Unione Europea, vincolate da impegni internazionali precisi, si attivino per prevenire e interrompere il genocidio in corso.
Chiediamo che Israele rispetti il diritto di cronaca e faccia entrare subito i media internazionali a Gaza e nei territori occupati». Negarlo, sottolineano, «significa violare arbitrariamente il diritto di essere informati e il rispetto di principi democratici fondamentali».
Alle colleghe e colleghi in Palestina
Richieste dunque e vicinanza, con la consapevolezza della tardività della piazza e il forte sentimento di impotenza, ma con l’intento di continuare a essere voce del racconto di «un apartheid e di una pulizia etnica» che va avanti da 78 anni.
«Voi, siete il migliore giornalismo, niente è riuscito a silenziarvi: la vostra voce risuona ovunque, non dimenticatelo. E se la verità è la prima vittima di ogni guerra, il silenzio e l’indifferenza sono i complici che la uccidono in tempo di pace. Non saremo indifferenti, non staremo zitti».