
Il fatto che un missionario diventi papa è un’esperienza inedita per la Chiesa cattolica. Ed è una gioia particolare per noi che raccontiamo la Chiesa e il mondo a partire dagli occhi di chi – come Robert Francis Prevost – ha accolto come ragione di vita la chiamata a fare in modo che la parola di Gesù possa raggiungere anche le periferie più remote del mondo.
«Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza con le braccia aperte», ha detto papa Leone XIV nel suo primo discorso dalla loggia della basilica di San Pietro. Chiedendo a ciascuno di farsi a sua volta «ponte» dell’amore di Dio verso tutti.
Il pontefice missionario è una sfida particolare per noi evangelizzatori. E nella nostra Italia, forse, oggi lo è ancora di più che in altre regioni del mondo. Ci ricorda l’urgenza dell’annuncio, proprio quando rischiavamo di abituarci all’idea che partire per paesi lontani fosse una vocazione del passato. Ci dice la necessità di non rinchiuderci nel nostro fortino, ma di continuare a guardare lontano, ad gentes, per aprire davvero le nostre comunità al respiro del mondo.
Come in tanti hanno sottolineato, il conclave che ha eletto papa Leone è stato quello più universale nella storia della Chiesa: grazie alle scelte profetiche di papa Francesco, ben 71 paesi erano rappresentati tra i cardinali elettori presenti nella Cappella Sistina. C’erano pastori di piccolissime comunità cattoliche che vivono in città e regioni su cui non si accendono mai i riflettori del mondo.
Proprio questo collegio cardinalizio così particolare, con un voto rapido e pare anche molto ampio, ha scelto Leone XIV. Lo ha fatto certamente per le sue doti umane. Ma lo ha eletto ben consapevole di scegliere un evangelizzatore. Oltre che un uomo a cui affidare il ministero del successore di Pietro, il conclave ha indicato una strada per raccogliere quell’invito che tante volte papa Francesco ci aveva rivolto chiamandoci a essere Chiesa «in uscita».
Dalla missione, parola chiave anche del percorso sinodale, ci chiedono dunque di ripartire il pontefice e la Chiesa intera. E insieme oggi ci indicano anche le frontiere più nuove, come quando, motivando il nome prescelto, il nuovo successore di Pietro ha tracciato il parallelo tra la prima rivoluzione industriale, affrontata da Leone XIII con la Rerum novarum, e le sfide che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale pone alla dignità umana, alla giustizia e al lavoro. Perché anche l’economia che uccide e la sete di pace in un mondo dilaniato dai conflitti, oggi, sono territorio di evangelizzazione.
Di Prevost diventato papa colpisce in particolare un tratto. Chiunque lo abbia conosciuto da vicino non riferisce gesti straordinari, ma ripete una qualità: è un uomo che sa ascoltare. Non è il missionario che ha vissuto le avventure più eroiche, non è quello che ha alzato di più la voce, non è quello che ha costruito più scuole o dispensari. Ha lasciato il segno attraverso l’apertura del cuore e della mente verso chi incontrava.
Perché così, come ha detto nella prima messa con i cardinali nella Cappella Sistina, anche chi ha autorità «sparisce affinché rimanga Cristo». Oggi lui è Pietro. E anche noi missionari – in Italia e in ogni angolo del mondo – vogliamo proseguire la nostra opera con questo stile discreto, mai invadente.