
Il Rwanda si trova nelle fasi iniziali di colloqui con gli Stati Uniti per accogliere migranti deportati dal territorio americano. Lo ha confermato domenica 4 maggio il ministro degli esteri rwandese Olivier Nduhungirehe durante un’intervista all’emittente statale Rwanda TV.
“Siamo in trattative con gli Stati Uniti, ma non siamo ancora arrivati a una fase in cui possiamo dire esattamente come procederanno le cose. I colloqui sono in corso, ma siamo ancora nelle fasi iniziali”, ha dichiarato Nduhungirehe.
Questa iniziativa s’inserisce nel quadro della politica migratoria intransigente dell’amministrazione Trump, che dopo l’inizio del suo secondo mandato a gennaio ha avviato una dura repressione dell’immigrazione, tentando di congelare il programma di reinsediamento dei rifugiati negli Stati Uniti ed esercitando forti pressioni per espellere gli immigrati irregolari e altri cittadini stranieri.
Il precedente
Il precedente è stato già stabilito a marzo, quando un rifugiato iracheno è stato deportato in Rwanda dall’amministrazione americana. Secondo quanto riportato da un funzionario statunitense e da un’e-mail interna, gli Stati Uniti avevano cercato a lungo di estradare questo individuo in risposta alle affermazioni del governo iracheno secondo cui avrebbe lavorato per lo Stato islamico.
Il Segretario di stato americano Marco Rubio ha recentemente dichiarato che gli Stati Uniti stanno “attivamente cercando” paesi disposti ad accogliere i deportati, descritti come “alcuni degli esseri umani più spregevoli”. Oltre al Rwanda, secondo alcune fonti, anche Panama, Costa Rica, El Salvador e persino la Libia sarebbero tra i paesi presi in considerazione.
Il posizionamento strategico del Rwanda
Negli ultimi anni il Rwanda si è posizionato come un paese di destinazione per migranti che i paesi occidentali vorrebbero allontanare.
Nel 2022, Kigali aveva firmato un accordo con la Gran Bretagna per accogliere migliaia di richiedenti asilo dal Regno Unito, prima che l’accordo venisse annullato l’anno scorso dal neoeletto primo ministro Keir Starmer dopo controversie legali e reazioni negative dell’opinione pubblica.
“Non è una novità per noi”, ha commentato Nduhungirehe riferendosi all’esperienza precedente con il Regno Unito. Ora il Rwanda sembra volersi riposizionare come nuovo “intermediario” per l’immigrazione per Washington, seguendo l’esempio di El Salvador, che all’inizio di quest’anno si è offerto di ospitare i deportati nella sua vasta mega-prigione in cambio di un compenso.
Implicazioni geopolitiche e critiche
L’accordo con gli Stati Uniti si inserisce in un contesto più ampio di negoziazioni legate anche alla guerra nella Repubblica democratica del Congo, dove il Rwanda svolge un ruolo importante, fornendo supporto ai ribelli del gruppo M23 e approfittando delle risorse minerarie della regione del Nord Kivu, esportate anche verso l’Unione europea.
I colloqui riavvicinerebbero Washington e Kigali in un momento in cui gli Stati Uniti stanno cercando di consolidare la propria credibilità nella regione, puntando sia alla pace che a un nuovo accesso a minerali essenziali.
Preoccupazioni sui diritti umani
L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha avvertito che esiste il rischio che alcuni migranti inviati in Rwanda possano essere rimpatriati nei paesi da cui erano fuggiti, violando il principio di non-refoulement. Kigali ha negato categoricamente queste accuse, accusando l’UNHCR di travisare le sue politiche sui rifugiati.
Jeffrey Smith, direttore fondatore del gruppo di pressione Vanguard Africa con sede a Washington, citato da The Africa Report ha espresso una dura critica all’accordo proposto: “Espellere gli immigrati in Rwanda è riprovevole sia moralmente che legalmente. In sostanza, il piano è semplicemente disumano, oltre a violare le leggi e gli accordi internazionali sui diritti umani vigenti da tempo”.
Kagame, il dittatore, non è una garanzia
Smith aggiunge che “la dittatura di Kagame ha ripetutamente dimostrato di non essere un partner internazionale affidabile e in buona fede. Lo ha fatto, ad esempio, politicizzando la questione dei diritti dei rifugiati e degli immigrati, presentandosi come una terza parte benevola, quando in realtà si tratta solo di un espediente per ottenere titoli positivi e di un modo cinico per costringere i governi occidentali, come gli Stati Uniti, a guardare dall’altra parte quando vengono commesse violazioni dei diritti umani”.
Il presidente Paul Kagame è noto per la sua capacità di bilanciare le critiche occidentali con il plauso internazionale per la ripresa post-genocidio e la professionalità militare del suo Paese. Gli analisti affermano che la prospettiva di ospitare deportati statunitensi potrebbe rafforzare l’immagine del Rwanda come partner internazionale affidabile, approfondendo i legami con Washington e guadagnando influenza in un ordine globale sempre più transazionale.
Il rifiuto della Libia
Mentre il Rwanda sembra disponibile a procedere con le trattative, in Libia la situazione appare diametralmente opposta. Diversi partiti politici libici hanno fermamente respinto i tentativi dell’amministrazione Trump di deportare i migranti con precedenti penali dagli Stati Uniti nel loro paese, definendoli “una palese violazione della sovranità della Libia”.
In una dichiarazione congiunta hanno sottolineato che “la Libia non è un banco di prova per le politiche estere, né una discarica per i problemi di altre nazioni che cercano soluzioni alle proprie crisi”.
L’incoerenza americana
I partiti hanno evidenziato l’incoerenza nella posizione americana, rilevando che gli Stati Uniti continuano a emettere annualmente avvisi di viaggio contro le visite in Libia a causa dei rischi per la sicurezza, mentre contemporaneamente la definiscono un “terzo paese sicuro” per i migranti deportati.
I rappresentanti libici hanno chiesto all’amministrazione statunitense di sospendere immediatamente “qualsiasi negoziato, accordo o memorandum d’intesa che violi la sovranità della Libia”, in particolare considerando l’assenza di un governo unificato in grado di rappresentare la volontà collettiva di tutti i libici.
Hanno inoltre esortato le autorità nazionali a dichiarare ufficialmente il loro rifiuto del piano proposto, avvertendo che “il silenzio è considerato un’approvazione implicita e pertanto condannato dal popolo libico”.
La dichiarazione ha riconosciuto il diritto degli Stati a gestire le proprie politiche migratorie, ma ha aggiunto: “Ciò non deve trasformarsi in una violazione della dignità delle persone o in uno sfruttamento delle regioni più vulnerabili del mondo”.