Prospettive sempre più scure per la cooperazione internazionale
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La frana dell'America First su USAID rianima il dibattito sull'utilità degli aiuti allo sviluppo
Prospettive sempre più scure per la cooperazione internazionale
04 Marzo 2025
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Donald Trump ad un comizio - Immagine d'archivio. Credit: Gage Skidmore / via Flickr

 «USAID è un’organizzazione criminale. È ora che muoia. » La dichiarazione di Elon Musk del 2 febbraio su X aveva tutto l’aspetto di una condanna a morte per l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Un commento stringato che seguiva la firma del 20 gennaio da parte di  Donald Trump del decreto con cui bloccava per 90 giorni i nuovi finanziamenti per gli aiuti esteri. 

Da allora si discute di un possibile assorbimento di USAID nel Dipartimento di Stato. E da giovedì scorso, 5,800 su 6,200 dei suoi programmi, ossia il 92% del totale, sono stati sospesi.

Il messaggio è chiaro: non c’è spazio per la beneficenza globale ai tempi dell’America First.

Gli effetti collaterali: chi paga il conto?

Gli Stati Uniti, con i loro 72 miliardi di dollari annui destinati alla cooperazione, sono il principale donatore mondiale. Nel 2023, l’Africa ha ricevuto 15 miliardi di dollari dagli USA. Per alcuni Paesi, come il Sud Sudan, gli aiuti USA rappresentano il 10% del PIL nazionale. Le organizzazioni umanitarie sono in allarme. La sospensione degli aiuti sanitari potrebbe tradursi in un’impennata di morti per HIV e malaria.

Aiuti allo sviluppo: carità o neocolonialismo?

Il taglio trumpiano ha anche riacceso il dibattito decennale sull’utilità degli aiuti allo sviluppo.

Riaffiorano i riferimenti alla tesi dell’economista zambiana Dambisa Moyo, autrice di Dead Aid, libro pubblicato nel 2009.  Le sue tesi più note includevano l’accusa all’industria degli aiuti di esistere per perpetuare se stessa, non per risolvere la povertà.

Sempre secondo l’autrice, i finanziamenti internazionali diretti ai governi favorivano la corruzione, scoraggiando gli investimenti e mantenendo l’Africa in una condizione di dipendenza economica.

Si inserisce in questo filone anche il commento di Celestine Monga, ex vicepresidente della Banca Africana di Sviluppo. In una recente intervista rilasciata a Le Monde Afrique, ha attaccato la retorica dell’altruismo occidentale:  «Bisogna uscire da questa semantica dell’illusione: nessuno aiuta nessuno. I donatori sono i veri vincitori, perché ricevono dall’Africa materie prime a prezzi che stabiliscono loro ».

Un’alternativa agli aiuti?

Il taglio drastico agli aiuti potrebbe obbligare gli Stati e le loro classi dirigenti a recidere il cordone ombelicale che li lega agli stati stranieri. Ma un’interruzione fatta in tempi così brevi, non lascia sperare niente di buono. La stessa Moyo immaginava una graduale riduzione degli aiuti su un periodo di 5 anni; non un qualcosa dall’oggi al domani.

Nei dibattiti di queste settimane, ci si imbatte spesso in una frase variamente formulata, che suona all’incirca così: ”l’Africa non ha bisogno della nostra carità, ma delle nostre imprese”. 

Tuttavia, liberalizzare il mercato non significa automaticamente sviluppo: la concorrenza globale rischia di schiacciare le economie africane, già piegate da un debito pubblico crescente.

Trump e il grande gioco globale

La decisione di Trump, oltre ad avere conseguenze devastanti per i beneficiari degli aiuti, si inserisce in un quadro geopolitico più ampio. Tagliare i finanziamenti significa lasciare spazio ad altri attori.

La Cina, con il suo programma China Aid e la Belt and Road Initiative, è la candidata più probabile per colmare il vuoto. Pechino investe in infrastrutture e offre prestiti agevolati, spesso senza le condizioni che accompagnano i fondi occidentali.

La mossa di Trump potrebbe essere un boomerang: meno aiuti significa meno influenza (nella forma di proiezione di soft power) e più spazio per i concorrenti globali.

Fine di un’epoca o solo una parentesi?

Il congelamento dei fondi potrebbe essere solo un episodio temporaneo o segnare un punto di non ritorno. Di certo, apre il dibattito su come ripensare la cooperazione internazionale.  «Dobbiamo superare la logica del dono e costruire veri partenariati economici», suggerisce Monga.

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