
Lo studio dell’Osservatorio del Cairo
Nel 2019 sono state almeno 161 le manifestazioni di diverso tipo che hanno coinvolto l’Egitto. Tra le ragioni principali, oltre a quelle economiche, l’insofferenza per i crescenti abusi del regime. Fondamentale per la mobilitazione il ruolo delle campagne social.
Manifestazioni di massa della “terza classe”, proteste di élite e categorie professionali indipendenti, campagne social, scontri con le forze armate: secondo lo studio pubblicato il 13 febbraio dall’Osservatorio per gli studi politici e sociali del Cairo sarebbero state almeno 161 le rivolte avvenute in Egitto durante tutto l’arco del 2019. Epicentri delle tensioni soprattutto il Cairo, Alessandria e Giza.
Diverse per partecipazione (con protagonisti lavoratori e sindacati, studenti, corporazioni, il popolo del web), per motivazione e per tipologia, tutte hanno avuto però un tratto comune: l’aver inquietato il regime di Abdel Fattah al-Sisi.
Poiché si sono verificate soprattutto in corrispondenza di casi che hanno scosso l’opinione pubblica, si sono evidenziati dei picchi di protesta nei mesi di settembre, febbraio, marzo, aprile e giugno.
Due questioni richiamano in particolare l’attenzione per volume di partecipazione e adesione (siamo nell’ordine delle migliaia): la prima riguarda il fenomeno degli allontanamenti forzati dei cittadini dal proprio territorio da parte del governo (peculiare è il caso dell’isola del Cairo, al-Warraq), e la seconda è la mobilitazione di massa organizzata tramite social network. Social che il regime non può tenere sotto controllo capillarmente ma che a volte riesce a sfruttare anche a proprio vantaggio.
Allontanamenti forzati: al-Warraq e il caso 488/2018
Se comunque le proteste a sfondo economico e scolastico non si devono trascurare (non sono mancate durante l’anno almeno 23 ribellioni di liceali e universitari, e altrettante per condizioni di lavoro e aumento del salario), è innegabile che il fenomeno degli sgomberi coatti e delle invasioni militari del governo in zone come l’isola di al-Warraq abbiano profondamente toccato gli egiziani, infiammando la miccia della rivolta.
Risale già al 2017 l’intenzione, dichiarata, di al-Sisi di eliminare da quel territorio quelli che lui definisce “occupatori abusivi”, e cioè i suoi legittimi e originari abitanti. Questo con lo scopo di trasformare l’isola in un hub turistico di lusso. Business, speculazione edilizia e tanti soldi, insomma. Il tutto senza rispettare minimamente le direttive ONU in materia di spostamento e ricollocamento delle comunità.
Ciò che il presidente non aveva messo in conto fin da subito era stata però la reazione degli isolani: un forte attaccamento alla propria terra (che hanno provato a sottrarre loro con un’operazione militare dal titolo ossimorico, Haqq al-chaab, “diritto del popolo”) e la strenua opposizione davanti ai bulldozer delle autorità. Nel mese di marzo 2019 la recrudescenza delle proteste e degli scontri (almeno 24), ha portato all’arresto di tre attivisti. Giusto per rimpolpare il famigerato fascicolo d’indagine “caso 488/2018” in cui rientrano tutti coloro che, oppostisi al regime, vengono incarcerati e in alcuni casi scompaiono.
Social media: repressione e manipolazione
Nelle interazioni sui social si sono riscontrati dei picchi in corrispondenza di precisi avvenimenti. A settembre, per la diffusione di video di denuncia della corruzione del regime da parte dell’imprenditore e attore Mohamed Ali, a giugno per la morte in carcere del deposto presidente Mohamed Morsi e la presa di posizione a suo favore del calciatore Mohamed Abutrika che ha causato il divieto, per i tifosi della sua squadra, l’Al-Ahli, di entrare negli stadi. A febbraio, il 20, l’esecuzione di nove studenti accusati di terrorismo e, il 27, l’incidente ferroviario nella stazione Ramses del Cairo, in cui morirono 28 persone e per il quale si addossarono responsabilità anche al presidente. A marzo i picchi riguardarono le proteste di al-Warraq e ad aprile le campagne contro gli emendamenti costituzionali e le manipolazioni del governo che cercava di pilotare il voto popolare, offrendo viveri fuori dalle urne elettorali.
La partecipazione popolare ha messo molto in difficoltà il regime con la diffusione di vere e proprie campagne social che si sono trasformate in mobilitazioni fisiche. La più famosa e seguita su Twitter è stata quella lanciata dal giornalista Moataz Matar dal titolo Atman you’re not alone, descritta come “il grido di tutti gli oppressi”, ideata per “ricordare a ogni supporter della rivoluzione che non è solo”. Inutile dire che è diventata in pochissimo tempo un hashtag di tendenza.
In risposta, il Consiglio dei ministri ha ordinato la creazione di una pagina, gestita da un giornalista pro-regime, che si occupa di smentire qualunque rumor riguardante il governo e di monitorare ciò che avviene sui social. Molto semplici le direttive governative: se si parla male di al-Sisi, localizzare e arrestare per mettere a tacere; se si viene a conoscenza di fatti che infastidiscono il popolo, localizzare e arrestare per recitare la parte degli “eroi”.
Così dopo la circolazione di video di pestaggi di disabili e bambini, la polizia paladina della giustizia ha punito immediatamente i responsabili. Dopo che qualcuno aveva fotografato delle macchie di sporco su una panchina ad Alessandria, l’intera città è stata tirata a lucido. Al fiutare, tramite Twitter, il possibile coinvolgimento di alcune farmacie del Cairo nel mercato della droga, queste sono state chiuse e radiate dai registri. Quando un attivista, un giornalista, uno studente, un cittadino comune ha espresso la sua opinione in un post, è semplicemente scomparso.
Protesta contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi. (Credit: Middle East Monitor)