
Continua incontrastata l’avanzata dell’esercito rwandese e del M23, la milizia sostenuta da Kigali nell’est della Repubblica democratica del Congo.
In poche settimane sono cadute sotto il loro controllo le due città capoluoghi delle regioni del Nord e Sud Kivu, Goma e Bukavu. E ora i miliziani marciano su Uvira che dista solo una trentina di chilometri dalla capitale economica del Burundi Bujumbura.
I resoconti parlano di saccheggi diffusi, abusi e uccisioni di migliaia civili, con decine di migliaia di persone in fuga. Sarebbero almeno 40mila quelle arrivate in Burundi in seguito alla presa di Bukavu. Tutti vittime di una crisi umanitaria sempre più grave.
L’esercito (FARDC) e la milizia alleata Wazalendo – affiancati da truppe burundesi – appaiono incapaci di contrastare la potenza militare degli invasori, mentre si registrano numerose defezioni di soldati e agenti di polizia.
Governo di unità nazionale?
Sul piano politico il presidente Felix Tshisekedi – che non ha mai smesso di cercare sostegno internazionale nella sua lotta contro l’invasione del Rwanda – tenta di ricompattare un esecutivo frammentato da divisioni interne.
Nei giorni scorsi, durante un meeting del partito al potere, Union Sacree, ha annunciato la volontà di aprire alle opposizioni per creare un governo di unità nazionale e di voler apportare cambiamenti alla leadership del suo partito, secondo quanto dichiarato dalla sua portavoce Tina Salma sui social media. Che non ha però aggiunto alcun dettaglio su quando questo avverrà, chi sarà coinvolto, con che obiettivi e a quali condizioni.
Ha invece chiesto agli Stati Uniti, all’Unione Europea e ad alte nazioni coinvolte, di smettere di acquistare materie prime strategiche dal Rwanda e di rivolgersi invece a Kinshasa, il “vero proprietario” delle risorse sottratte da Kigali nelle ricche regioni dell’est.
Reazioni internazionali
Intanto si moltiplicano le reazioni internazionali e le condanne nei confronti di Kigali.
Il 21 febbraio l’Unione Europea ha convocato l’ambasciatore rwandese intimando al governo di Paul Kagame di “ritirare immediatamente tutte le truppe dal territorio occupato nella Rd Congo”, di “cessare di sostenere l’M23 e qualsiasi altro gruppo armato” e di “riprendere il dialogo”. Stessa cosa hanno fatto anche Germania e Regno Unito.
La mossa dell’UE è stata preceduta da quella degli Stati Uniti che hanno imposto sanzioni al ministro rwandese per l’Integrazione regionale James Kabarebe (ex comandante dell’esercito) e al portavoce del M23 Lawrence Kanyuka.
Sanzionate anche due società controllate da quest’ultimo: Kingston Fresh, una società di servizi alimentari registrata nel Regno Unito, e Kingston Holding, società di consulenza mineraria con sede in Francia.
Sanzioni bollate come “ingiustificate e infondate” dal ministero degli Esteri rwandese, secondo cui “le misure punitive, comprese le sanzioni, non contribuiscono in alcun modo alla sicurezza, alla pace e alla stabilità a lungo termine per tutti i paesi della regione dei Grandi Laghi” e possono invece “essere interpretate solo come un’ingiustificata interferenza esterna nel processo guidato dall’Africa, che rischia di prolungare la risoluzione del conflitto”.
In una risoluzione approvata a metà febbraio il Parlamento dell’UE aveva esortato le istituzioni europee a sospendere il sostegno finanziario diretto al Rwanda e chiesto il congelamento del sostegno militare e di sicurezza a Kigali.
Contro il Rwanda si è mosso infine anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, approvando il 21 febbraio scorso all’unanimità una risoluzione che chiede che “l’M23 cessi immediatamente le ostilità, si ritiri da tutte le aree sotto il suo controllo” e “annulli completamente l’istituzione di amministrazioni parallele illegittime nel territorio della Rd Congo”.
Il testo, sottoposto dalla Francia, “condanna le esecuzioni sommarie e le mutilazioni, la violenza sessuale e di genere, la tratta di esseri umani e il reclutamento e l’uso di bambini”, chiedendo alle parti coinvolte nel conflitto di “consentire e facilitare un accesso umanitario sicuro, immediato e senza ostacoli a tutte le persone bisognose, nonché il ripristino dei servizi di base quali assistenza sanitaria, acqua, elettricità e comunicazioni”.
Secondo gli ultimi dati dell’ONU, dal 26 gennaio il conflitto ha causato oltre 3mila morti, quasi altrettanti feriti e più di 500mila nuovi sfollati, che si aggiungono ai già 6,4 milioni già presenti in varie zone del paese, in quella che è una delle più gravi crisi umanitarie presenti al mondo.
Secondo quanto diffuso ieri dalla prima ministra Judith Suminwa i combattimenti nell’est hanno ucciso circa 7mila persone da gennaio. Più di 2.500 corpi sono stati sepolti senza identificazione, mentre altri 1.500 sono ancora negli obitori. Circa 3.000 decessi sono stati segnalati a Goma.