
È arrivato come un macigno gettato nelle già turbolente acque della politica congolese l’annuncio del rientro nella Repubblica democratica del Congo (RDC) dell’ex presidente Joseph Kabila, al potere dal 2001 al gennaio 2019.
Con un comunicato datato 8 aprile, Kabila fa sapere di essere stato spinto a “tornare senza indugio”, dopo sei anni di auto-imposto esilio in diversi paesi dell’Africa australe, a causa del “deterioramento della situazione della sicurezza in tutta la RDC, nonché il decadimento che sta divorando tutti i settori della vita nazionale”. Una situazione che definisce “fuori controllo”.
“Ho deciso di iniziare dalla parte orientale, perché è lì che risiede il pericolo”, si legge ancora nel documento, nel quale Kabila afferma di essersi consultato con diversi leader o ex leader della regione, attori politici e sociali congolesi e stranieri, prima di decidere di tornare.
Coalizione con l’AFC?
L’emittente francese RFI, che ha visionato il testo, si interroga sulle intenzioni dell’ex presidente: spianare la strada a una rielezione nella prossima tornata elettorale nel 2028? O tentare di rovesciare Felix Tshisekedi con il sostegno politico-militare dell’Alleanza Fiume Congo (AFC), la coalizione anti-governativa di gruppi armati capeggiata dall’oppositore in esilio Corneille Nangaa che assieme alla milizia filo rwandese M23 sta dominando ampi territori proprio nell’est del paese?
Un’ipotesi quest’ultima che, riporta ancora RFI, non è da escludere, stando alla risposta data dall’entourage dell’ex capo di stato congolese: «Partecipare all’azione dell’AFC? È possibile…»
Di certo per il momento Nangaa – ex capo della Commissione elettorale congolese – si tiene lontano da Kinshasa visto che sulla sua testa, così come su quelle di altre 25 persone, tra cui i leader dell’M23 Sultani Makenga e Bertrand Bisimwa, pende una condanna a morte per tradimento, partecipazione a un movimento insurrezionale e crimini di guerra.
Un ritorno pianificato
L’annuncio della ridiscesa in campo di Joseph Kabila era stata anticipata da un editoriale pubblicato il 23 febbraio sul quotidiano sudafricano Sunday Times, nel quale l’ex presidente attacca Tshisekedi, accusandolo di aver fallito nella gestione dello stato sul piano economico e su quello della sicurezza.
Kabila accusa il suo successore di aver contribuito all’aggravarsi dell’instabilità nelle regioni orientali del Nord e Sud Kivu e nell’Ituri, privilegiando lo scontro armato e permettendo lo schieramento di forze militari straniere (gli eserciti di Uganda e Burundi, quelli multilaterali della SADC, la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, guidati dal Sudafrica, oltre a varie forze paramilitari).
Tra le accuse mosse a Tshisekedi anche quella di una deriva autoritaria finalizzata ad estendere il suo potere oltre al termine di due mandati attraverso un progetto di revisione della Costituzione.
A sostegno dell’ex presidente il Partito Popolare per la Ricostruzione e la Democrazia (PPRD), anch’esso riattivatosi dopo anni di semi-torpore all’opposizione, e numerose defezioni, seguiti alla sconfitta sua e di Kabila alle elezioni del dicembre 2018.
«La nostra resistenza si inserisce in un contesto molto specifico che si sta lentamente ma inesorabilmente muovendo verso la distruzione dello stato di diritto», ha dichiarato il 7 aprile il segretario permanente del partito Emmanuel Ramazani Shadary, in un convegno a Kinshasa in occasione del 23° anniversario della fondazione.
Una resistenza “politica”, “nazionalista” e non violenta, precisa il PPRD, che si è tradotta nel rifiuto di partecipare alle consultazioni avviate il 24 marzo da Tshisekedi – e concluse l’8 aprile – con l’obiettivo di formare un governo di unità nazionale.
Consultazioni di fatto senza opposizioni, visto che oltre il 90% dei partecipanti proveniva dalla maggioranza presidenziale.