
Il braccio di ferro innescato dalle politiche anti-immigrazione del presidente americano Donald Trump con le autorità del Sud Sudan rischia di avere durissime ripercussioni sui cittadini sudsudanesi negli Stati Uniti.
Il 5 aprile scorso, infatti, il segretario di stato americano Marco Rubio ha annunciato la revoca immediata di tutti i visti posseduti dai titolari di passaporti sudsudanesi e lo stop di ulteriori emissioni di visti per l’ingresso negli Stati Uniti.
Una mossa decisa in risposta al rifiuto da parte delle autorità di Juba di accettare il rimpatrio dei cittadini sudsudanesi dagli USA.
“È tempo che il governo di transizione del Sud Sudan smetta di approfittarsi degli Stati Uniti”, si legge nella nota del Dipartimento di stato firmata da Rubio, nella quale si ricorda che “ogni paese deve accettare il rimpatrio dei suoi cittadini in modo tempestivo quando un altro paese, compresi gli Stati Uniti, cerca di rimuoverli”.
Washington, ha aggiunto Rubio, “sarà pronta a rivedere queste azioni quando il Sud Sudan sarà pienamente cooperativo”.
Non è chiaro se la revoca dei visti riguardi anche i sudsudanesi a cui l’amministrazione Biden aveva concesso lo status di protezione temporanea (TPS), in scadenza il 3 maggio.
Il TPS è una sorta di asilo temporaneo che consente a cittadini stranieri che non possono tornare in sicurezza nel paese d’origine a causa di guerre, disastri naturali o altre condizioni “straordinarie”, di restare negli USA evitando la deportazione.
A settembre 2023 erano circa 133 i sudsudanesi ospitati dagli Stati Uniti sotto il programma TPS, con altri 140 idonei a presentare domanda, secondo i dati del Dipartimento della sicurezza interna.
Il Sud Sudan è il primo paese i cui titolari di passaporto vengono privati tout court del diritto di restare legalmente negli Stati Uniti.
Una mossa che solleva dubbi di legalità e che arriva nel mezzo di una crisi politico-militare che rischia di far ripiombare il paese africano nel baratro di una nuova guerra civile, dopo quella durata cinque anni e conclusa nel settembre 2018 con un fragile accordo di pace, che provocò 400mila morti con 2,4 milioni di rifugiati e quasi altrettanti sfollati interni.