
Il prossimo 29 luglio scadono i sei mesi entro cui i paesi dell’Alleanza del Sahel (AES) – Mali, Niger e Burkina Faso – possono ritrattare l’uscita dalla CEDEAO/ECOWAS. La decisione di inizio aprile delle giunte militari al potere a Bamako, Niamey e Ouagadougou di imporre un’imposta dello 0,5% su tutte le merci importate dagli stati membri della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, allontana la possibilità che si possa ricucire lo strappo.
Le conseguenze del dazio
Il dazio, entrato in vigore immediatamente, viene applicato a tutte le merci che entrano nei tre paesi dagli stati della CEDEAO, escluse quelle in transito e gli aiuti umanitari e allo sviluppo.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze del Mali, Alousseni Sanou, ha detto che l’imposta non costituisce un onere aggiuntivo per i maliani in quanto la vecchia imposta comunitaria della CEDEAO – applicata sui beni importati da paesi esterni al blocco – viene sostituita con questa nuova imposta confederale. Di conseguenza, sostiene la giunta di Bamako, il dazio non avrà alcun impatto sulle importazioni e non inciderà sul costo dei prodotti alimentari importati.
Questa imposta sbatte però con il Programma di Liberalizzazione del Commercio (ETLS) in cui la CEDEAO ha voluto continuare a coinvolgere i paesi dell’AES nonostante la loro uscita dal blocco. E adesso rappresenterà un ostacolo allo scorrere dei flussi commerciali tra gli stati delle due organizzazioni, facendo salire i prezzi dei prodotti alimentari in tutta la regione.
Se dunque nel breve termine con questa mossa i paesi dell’AES potranno guadagnare liquidità, nel medio andranno inevitabilmente incontro a nuove difficoltà. Oltre a essere molto dipendenti dalle importazioni di prodotti di cui non dispongono in casa propria, Mali, Niger e Burkina Faso sono privi di sbocchi sul mare.
Una stragrande parte di ciò di cui necessitano arriva loro attraverso i porti di stati della CEDEAO: Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Senegal e Benin. Inoltre, seppure questa nuova imposta non interesserà le merci che non provengono ma passano solo per gli stati della CEDEAO, al dazio presto potrebbero fare seguito delle contromisure.
Si prospetta dunque una guerra commerciale che di certo non farà bene ai paesi dell’AES ma che avrà ripercussioni pesanti anche sulla stessa CEDEAO, organizzazione la cui bilancia commerciale resta in deficit con le importazioni che superano le esportazioni.
Senza dimenticare il peso dei fuoriusciti, da non sottovalutare nonostante le loro evidenti difficoltà economiche: un territorio di oltre 2 milioni e 781mila km² (ben superiore a quello su cui si estende l’intera organizzazione – poco più di 2 milioni di km²), il 17% della sua popolazione (122 milioni di persone), il 7,7% del suo PIL totale.
Niger
Da mesi il Niger è alle prese con black out nel passaggio della corrente elettrica e carenza di carburante a causa delle forniture a singhiozzo da parte della Nigeria, paese che di Niamey è il terzo partner commerciale dopo Francia e Mali.
La giunta che governa il paese, seguendo lo stesso orientamento di Mali e Burkina Faso, sta provando ad affidare ad aziende nazionali la gestione di permessi estrattivi in modo da avere un controllo sempre maggiore sullo sfruttamento delle risorse interne.
Tra le ultime sue mosse c’è quella di rilanciare l’estrazione di rame nella regione di Agadez dove è stata concessa una licenza alla Compagnie Minière de l’Air (Cominair SA) di cui il governo detiene il 25%.
Nonostante l’instabilità dell’area in cui si trova la miniera – nei pressi di Moradi, seconda città del paese, non lontano dal confine con la Libia – la giunta prevede di produrvi in media 2.700 tonnellate di rame all’anno per un periodo di dieci anni e di creare centinaia di nuovi posti di lavoro.
Un’altra licenza è stata concessa all’azienda locale Compagnie Minière de Recherche et d’Exploitation (Comirex SA, partecipata al 40% dallo stato) per l’estrazione di litio a Dannet, dove si stima una produzione media annua di 300 tonnellate.
Lo scoglio più grosso da affrontare è rappresentato però dall’uranio di cui il Niger è un importante possessore avendone fatto estrarre nel suo territorio nel 2022, secondo la World Nuclear Association, il 5% di quello estratto a livello mondiale.
Da quando il leader della giunta Abdourahamane Tchiani ha preso il potere con il golpe del luglio 2023, la produzione nazionale si è bloccata. La francese Orano è stata messa alla porta dopo cinquant’anni di attività soprattutto nelle miniere di Imouraren e Somair. Fuori dai giochi anche la canadese GoviEX a cui non è stata rinnovata la concessione nella miniera di Madaouela.
In attesa di un ingresso nel mercato in pianta stabile della russa Rosatom, le esportazioni sono ferme sia per via della chiusura dei confini con il Benin, che priva il Niger del più vicino sbocco sul mare fatta eccezione al momento per il porto di Cotonou, sia perché il paese non dispone di competenze tecniche e attrezzature necessarie per gestire autonomamente le miniere. Questo blocco, sommato a quello della produzione di greggio, non potrà essere sopportato ancora molto a lungo dall’economia nigerina.
Chi potrebbe approfittarne è la Namibia, terzo produttore mondiale di uranio. Orano sta infatti valutando la possibilità di investire sul progetto Trekkopje, nella regione dell’Erongo, esteso su oltre 140 km² ma sospeso dal 2012 a causa degli elevati costi operativi. L’impennata dei prezzi dell’uranio, dovuta al ritorno in auge dell’energia nucleare a livello globale e in Africa, potrebbe presto rappresentare una chance di rilancio per questo progetto.
Mali
In Mali, secondo produttore mondiale di oro, l’australiana Toubani Resources ha ottenuto a fine marzo il rinnovo della licenza estrattiva nella miniera di Kobada, al confine con la Guinea Conakry, dopo aver accettato di adeguarsi alle disposizioni del nuovo Codice minerario maliano, varato nel 2023, e aver ceduto il 5% delle sue quote sul sito a investitori locali.
Sono invece in fase di stallo i colloqui tra la giunta di Assimi Goita e la canadese Barrick Mining (ex Barrick Gold), che gestisce Loulo-Gounkoto, la più grande miniera del paese, ma che si è finora rifiuta di attenersi al nuovo Codice minerario.
La disputa ha già portato negli ultimi mesi al sequestro di tre tonnellate di oro di proprietà dell’azienda, all’incarcerazione di quattro suoi dipendenti e a un mandato d’arresto per il suo ceo Mark Bristow. Secondo fonti sentite da Jeune Afrique la situazione potrebbe sbloccarsi attraverso un assegno di 300 milioni di dollari che Barrick Mining staccherebbe ottenendo in cambio il rilascio dei dipendenti e la restituzione dell’oro sequestrato.
Un’altra azienda canadese, Allied Gold, ha venduto una quota del 50% di Allied Gold ML Corporation, che controlla l’80% della miniera di Sadiola, alla società emiratina Ambrosia Investment Holding per 500 milioni di dollari. Oltre a questa miniera, Allied Gold è in trattativa con la società di stato maliana SOREM (Société de Recherche et d’Exploitation des Ressources Minerales du Mali) per avviare attività congiunte nei pressi di Sadiola e in altre parti del paese.
Burkina Faso
In Burkina Faso la giunta guidata da Ibrahim Traoré continua l’operazione di internalizzazione dei più importanti asset produttivi del paese puntando a una maggiore sovranità energetica. Il modello applicato nel settore degli idrocarburi, con una centralità sempre più accentuata della compagnia di stato Sonabhy, vuole essere replicato anche nel campo dei fertilizzanti con Sobimap e in quello del cotone con Sofitex.
La fibra tessile è il secondo prodotto più esportato dal paese, rappresenta il 4% del suo PIL e garantisce lavoro a circa 4,5 milioni di persone. Dopo essere stato superato negli ultimi anni nella regione da Benin e Mali, con nuovi investimenti in Sobimap il Burkina punta a recuperare terreno anche in questo mercato. Accentrando sempre di più il controllo del governo sulle risorse nazionali.