
Dopo la visita del presidente USA, Donald Trump, in Arabia Saudita, Qatar e nel Golfo e il rilascio dell’ostaggio israelo-americano Edan Alexander, grazie ai colloqui diretti USA-Hamas, sono ripresi a Doha in Qatar i negoziati per arrivare ad un nuovo cessate il fuoco del conflitto a Gaza.
La prima fase della tregua, raggiunta lo scorso 19 gennaio, tra Israele e Hamas si è chiusa il primo marzo con il ritorno dei raid dell’esercito israeliano (IDF) nella Striscia di Gaza per un conflitto che dagli attacchi del 7 ottobre 2023 ha causato oltre 52mila vittime palestinesi.
E così la crisi umanitaria a Gaza è andata aggravandosi con lo stop a tutti gli aiuti umanitari per lo stato di assedio in cui si trova la Striscia e in seguito all’avvio, lo scorso 16 maggio, della così detta “Operazione carri di Gedeone” da parte di IDF che include il piano di occupazione del Nord di Gaza e di deportazione della popolazione palestinese verso il Sud della Striscia.
Il ruolo egiziano
Con il ritorno dei colloqui negoziali a Doha, l’Egitto potrebbe di nuovo ricoprire un ruolo importante nella mediazione per un cessate il fuoco permanente a Gaza. Sebbene durante il conflitto, il Cairo abbia assunto posizioni sovrapponibili con quelle israeliane accrescendo le capacità negoziali del Qatar, il presidente Abdel Fattah al-Sisi non ha mai dato il suo via libera alla deportazione di massa di palestinesi nel Sinai, come paventato dal piano Trump per realizzare nella Striscia la così detta “Riviera del Medioriente”. Non solo, al-Sisi ha ottenuto ampio sostegno internazionale, a partire dalla Francia di Macron, per il piano arabo di ricostruzione di Gaza.
D’altra parte, le autorità egiziane hanno usato le diffuse mobilitazioni a sostegno della Palestina del 2024 e del 2025 in Egitto come uno strumento di sostegno per il regime di al-Sisi, seppur limitandole nello spazio, alle mobilitazioni ancora in corso alle porte del Sindacato dei giornalisti al Cairo.
E così, in questi 18 mesi di negoziati, l’Egitto ha dimostrato di essere capace di ascoltare le richieste del movimento che governa la Striscia di Gaza, Hamas. Per esempio, negli ultimi mesi, il bando completo deciso nel 2017 ai rapporti bilaterali tra Egitto e Qatar per i presunti finanziamenti che dal paese arrivavano alla Fratellanza musulmana egiziana è andato gradualmente diradandosi.
Il Cairo, Doha e il soft power egiziano
Da una parte, il canale satellitare di Doha al-Jazeera ha ripreso le sue trasmissioni in arabo e in inglese in Egitto. Dall’altra, le autorità egiziane hanno avviato una collaborazione a vari livelli con Hamas, con lo scopo di contenere le violenze dei gruppi radicali nel Sinai che per anni hanno permesso di giustificare lo stato di emergenza nella penisola. Questo dialogo si è in seguito intensificato con la partecipazione dei diplomatici egiziani nei colloqui di Doha per il cessate il fuoco a Gaza.
In altre parole, l’Egitto ha usato tutti i suoi strumenti di soft power a disposizione per evitare la deportazione dei palestinesi in territorio egiziano, come suggerito da Donald Trump – che al-Sisi non ha incontrato a Washington come inizialmente previsto -, incluso un canale di dialogo con il movimento che governa Gaza, per anni considerato vicino alle posizioni della Fratellanza musulmana, messa al bando in Egitto dopo il golpe militare del 2013.
Tutto questo sta avvenendo perché il genocidio a Gaza e le possibili deportazioni dei palestinesi gazawi in territorio egiziano metterebbero a dura prova la stabilità del regime di al-Sisi, così come di altri paesi vicini, a partire dalla Giordania.
Questo approccio diplomatico è culminato con l’approvazione della nota proposta araba di un piano per Gaza, discussa al Cairo lo scorso febbraio, e che si è concentrata sull’emergenza, la ricostruzione delle infrastrutture, distrutte dalla guerra, e lo sviluppo economico di lungo termine a Gaza.
Il piano prevede investimenti per 53 miliardi di dollari per la ricostruzione della Striscia ma non è chiaro quale dovrebbe essere il futuro politico di Hamas che, per le autorità israeliane, non dovrebbe avere alcun ruolo nel futuro governo di Gaza.
La ripresa dei negoziati in Qatar
In Qatar, si sta discutendo in questi giorni anche della liberazione di almeno metà degli ostaggi israeliani in vita (24 su 59), mentre Hamas vorrebbe una tregua consolidata di lungo periodo.
E così, in questa fase, gli interessi nel conflitto del presidente USA e del premier israeliano Netanyahu, appaiono divergenti, dopo la prima visita ufficiale di Trump in Arabia Saudita, nei paesi del Golfo e in Qatar con lo scopo anche di ridimensionare le reazioni contrarie che il suo piano per Gaza aveva sollevato nel mondo arabo.
Se il premier israeliano vorrebbe una guerra su tutti i fronti, a Gaza, in Cisgiordania, a Beirut in Libano, contro gli houthi in Yemen, mentre l’IDF ha colpito il centro di Damasco, Trump nel suo viaggio in Medioriente ha incontrato il presidente ad interim, Ahmed al-Sharaa, e annunciato la fine delle sanzioni contro la Siria.
Dal canto suo, il presidente USA vorrebbe essere rappresentato come l’uomo che ha chiuso il conflitto nella Striscia, nonostante il suo piano di pulizia etnica di Gaza abbia irritato non poco i leader arabi, a partire dal suo “dittatore preferito” nella regione, al-Sisi che pure ha visto in questi anni completamente ripristinati gli aiuti militari statunitensi per 1,3 miliardi di dollari al Cairo.
“Gaza oltre il confine”
Proprio per sfidare lo stato di assedio di Gaza, dal Cairo è partita la scorsa settimana la Carovana solidale “Gaza oltre il confine”, composta da 60 operatori umanitari, attivisti e docenti, e organizzata da AOI, Arci e Assopace Palestina. La delegazione, a cui è stato vietato l’accesso nella Striscia, si è diretta dal Cairo verso il valico di Rafah, chiuso dalle autorità egiziane che hanno impedito per mesi ai feriti palestinesi di curarsi negli ospedali locali e agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia.
Lo scopo di questa iniziativa è di chiedere la fine dell’occupazione israeliana e il rispetto degli obblighi internazionali da parte di Tel Aviv. “Il valico di Rafah è stato completamente sigillato dallo scorso due marzo. Abbiamo udito esplosioni dal confine, a partire dall’invasione di Rafah del maggio scorso. Anche da qui si sentono le bombe”, hanno fatto sapere gli attivisti che hanno partecipato alla Carovana. “Se durante il cessate il fuoco entravano soltanto 300 camion al giorno, in questo momento non entrano e non escono camion né persone ferite”, hanno aggiunto.
Sono 412 gli operatori umanitari uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023, l’ultima è stata l’educatrice Noha Sultan che lavorava con i bambini palestinesi vittime di traumi di guerra. “A volte non riusciamo a dare dei volti ai numeri delle vittime ma non dobbiamo dimenticarci che chi non sta morendo per i raid sta morendo di fame”, ha aggiunto Valentina Venditti del Ciss.
Secondo le Nazioni Unite, una persona su cinque a Gaza soffre di fame, la carestia viene usata come arma di guerra. Non solo, non si ferma lo stato di assedio della Striscia sia via terra che via mare come dimostra il caso della Freedom Flotilla, colpita da due droni in acque internazionali, a largo di Malta prima di poter raggiungere Gaza per distribuire aiuti umanitari.
Come se non bastasse, secondo il piano di Israele e USA, la distribuzione degli aiuti, la cui consegna limitata è ripresa il 18 maggio, dovrebbe avvenire esclusivamente attraverso organizzazioni private.
L’Egitto di al-Sisi ha dimostrato di non voler accettare in nessun modo la deportazione dei palestinesi di Gaza nel Sinai, come auspicato da Israele e Stati Uniti. Questa linea rossa, se superata, potrebbe riportare mobilitazioni di massa anti-regime in Egitto, il peggior incubo per al-Sisi.
E così negli ultimi mesi, le autorità egiziane hanno dimostrato di voler usare i loro canali diplomatici per impedire il piano di occupazione di Gaza, approvato da Tel Aviv, dopo aver riaperto le comunicazioni con il Qatar messe a dura prova dagli anni della repressione politica.