
L’Italia, per SiMohamed Kaabour, che ancora vive in Marocco, è quello che per tante persone italiane fu “la Merica”. Una meta che ti può cambiare la vita. A te e alle persone a te care. L’Italia, nel 1992, è il paese in cui l’autore del libro, primo presidente del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane (Coongi), arriva appena decenne. In contemporanea con una legge, la 91, che segnerà uno spartiacque nell’acquisizione della cittadinanza per le persone di origine straniera.
Quello della legge sulla cittadinanza, sarà il primo di una serie di passi con cui lo stato italiano cercherà di blindarsi davanti a un fenomeno migratorio (in quel tempo proveniente soprattutto dall’Albania) destinato a diventare strutturale ma vissuto sempre come emergenziale, affrontato mai con lungimiranza, ma sempre in una posizione difensiva e di tutela a una identità italica da preservare.
È il 1992 l’anno in cui si stabilisce che gli anni di residenza per chiedere la cittadinanza saranno dieci, non più 5. Dopo una lunga campagna della società civile italiana e con background migratorio, questo mese si vota per tornare al lustro con un referendum. Per SiMohamed bambino, che nulla sa di tutto queste cose, l’Italia è luogo di ricchezza, dove si butta ciò che in Marocco, il suo paese d’origine, non sarebbe mai scarto: dagli avanzi di cibo ai giocattoli appena ammaccati, dalle bici usate ai vestiti dismessi. La lettura della ricchezza o della povertà cambia, a seconda del codice utilizzato in quella parte del mondo in cui ti trovi a guardarlo, il mondo.
E per SiMohamed che casa, a Casablanca, era una stanza da condividere con altre 5 persone, l’impatto con l’Italia fa scoprire una realtà inedita, che inizia a guardare e leggere con occhiali diversi da quelli europei, che sono spesso opachi rispetto al concetto di essenziale. Ma il nostro paese gli si presenta differente anche dai racconti che il padre faceva in famiglia e alla sua gente, cui di frequente si omettono le difficoltà del vivere in un paese non tuo.
Un vivere che, per chi arriva da piccolo, è ancora diverso, innanzitutto per l’impatto con la lingua. Per SiMohamed, arrivato a Genova, l’arabo è lingua improvvisamente solo di casa, non di comunità, e diventa una scialuppa dove rifugiarsi. Mentre l’italiano quella che si infila sotto pelle fino a diventare la tua lingua.
Perché la lingua (lo diceva don Milani) ha il potere di rendere uguali di essere, SiMohamed lo scrive, “bambini come gli altri”, in un tempo in cui a scuola i bambini e le bambine musulmane si contavano sulle dita di una mano e la convivenza si cominciava a sperimentare per tentativi. Nella reciproca frustrazione di non comprendere né farsi comprendere. Perché se il patrimonio culturale di partenza è diverso, anche la gestualità della comunicazione quotidiana lo è.
Ma se la lingua rende uguali, i documenti no. E SiMohamed si trova a non poter partire con i compagni, perché il suo passaporto e permesso di soggiorno non sono sufficienti. Occorre il visto. La prima consapevolezza di cosa voglia dire essere italiano o meno. Fino ad aver la cittadinanza e, attraverso la laurea in Lingue, acquisire la consapevolezza di sé.