Si allunga l’elenco dei paesi africani che hanno stipulato accordi con Washington per accogliere sul proprio territorio cittadini stranieri espulsi dagli USA.
L’ultimo, in ordine di tempo, è l’Uganda, paese di poco più di 241mila chilometri quadrati e 51 milioni di abitanti che già ospita la più grande popolazione di rifugiati in Africa: oltre 1.7 milioni.
La notizia del raggiungimento dell’intesa, negata nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri ugandese Okello Oryem, secondo cui il paese non dispone delle strutture necessarie per accogliere gli immigrati, è stata invece confermata ieri dal segretario permanente del ministero, Vincent Bagiire Waiswa, con una dichiarazione ufficiale pubblicata su X.
STATEMENT CONCERNING AGREEMENT ON MIGRATION ISSUES WITH THE GOVERNMENT OF THE UNITED STATES
As part of the bilateral cooperation between Uganda and the United States, an Agreement for cooperation in the examination of protection requests was concluded.
The Agreement is in… pic.twitter.com/dStdBSXtBN
— Ministry of Foreign Affairs – Uganda 🇺🇬 (@UgandaMFA) August 21, 2025
“L’accordo – si legge – riguarda i cittadini di paesi terzi a cui potrebbe non essere concesso asilo negli Stati Uniti, ma che sono riluttanti o potrebbero avere preoccupazioni in merito al ritorno nei loro paesi di origine”.
Nel comunicato si parla di un “accordo temporaneo” e si specifica che “non saranno accettate persone con precedenti penali e minori non accompagnati”.
Nel testo si precisa ancora che l’Uganda preferirebbe accogliere persone di nazionalità africana e che le due parti “stanno definendo le modalità dettagliate di attuazione dell’accordo”.
Kampala ha peraltro un background di accoglienza di migranti espulsi da altri paesi. Clamoroso fu, nel 2015 e 2018, l’arrivo di circa 1.700 richiedenti asilo cacciati da Israele.
Accordi con Eswatini, Sud Sudan e Rwanda
L’Uganda diventa così il quarto paese africano disposto ad accogliere immigrati espulsi dagli USA, dopo il Sud Sudan, in piccolo regno di Eswatini e il Rwanda, che all’inizio di agosto ha si è detto disponibile a ospitare fino a 250 persone, a condizione che Kigali abbia “la possibilità di approvare ogni individuo proposto per il reinsediamento”.
Il 5 luglio, al termine di un acceso braccio di ferro legale tra Washington e Juba, sono invece arrivati in Sud Sudan i primi otto deportati: un sudsudanese e altri sette originari di Myanmar, Cuba, Vietnam, Laos e Messico, condannati negli USA per reati tra cui omicidio, violenza sessuale e rapina.
Sta incontrando invece ostacoli l’accordo firmato con il regno di Eswatini, dove sono detenuti in un carcere di massima sicurezza i primi cinque deportati dagli USA, cittadini di Vietnam, Giamaica, Cuba, Yemen e Laos condannati per omicidio e stupro di minori, che il Dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti descrive come “straordinariamente barbari”.
Il 14 agosto, un mese dopo il loro arrivo nel piccolo paese dell’Africa meridionale, l’Eswatini Litigation Centre, la Swaziland Rural Women’s Assembly e il Southern Africa Litigation Centre hanno presentato un ricorso urgente presso l’Alta Corte contestando la validità dell’accordo che violerebbe la Costituzione “in quanto non prevede la ratifica parlamentare e la partecipazione pubblica”. I termini dell’intesa sono peraltro secretati, ha fatto sapere il portavoce del governo.
Ma certo, sulla legalità di tali accordi i dubbi non mancano.
Diverse organizzazioni per i diritti umani fanno notare che le deportazioni rischiano di violare il diritto internazionale, poiché indirizzano le persone verso paesi in cui corrono il rischio di tortura, rapimento e altri abusi.
Espulsioni di massa
L’amministrazione Trump punta all’espulsione di milioni di immigrati irregolari, richiedenti asilo e stranieri con condanne penali negli Stati Uniti. In migliaia sono stati già trasferiti in paesi dell’America Latina: Costa Rica, El Salvador, Panama e Honduras.
Il Dipartimento per la sicurezza interna ha annunciato che dal 1° gennaio a 31 luglio circa 1,6 milioni di immigrati clandestini hanno abbandonato il paese.
Per finanziare arresti, detenzioni, rafforzamento delle frontiere ed espulsioni, il 1° luglio il Senato statunitense ha approvato uno stanziamento senza precedenti di fondi: circa 170 miliardi di dollari, di cui 29,9 miliardi per le operazioni di controllo e deportazione.