Ciad: storie di una comunità dell’est, fra solidarietà e fuga dalla guerra
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Intervista a fratel Gonzales, missionario comboniano della parrocchia di Abéché, terra di confine col Sudan
Storie di una comunità dell’est del Ciad, fra solidarietà e fuga dalla guerra
«Tanti problemi ma anche iniziative per affrontarli, in una comunità unita nella fede
16 Marzo 2025
Articolo di Brando Ricci (da N'Djamena)
Tempo di lettura 8 minuti
Una foto di Abéchè (Credit: Flickr)

Una comunità diffusa in un territorio enorme, eppure molto unita nell’aiuto e nella fede. Segni di solidarietà che non sono venuti meno neanche dopo l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi dal vicino Sudan, distante solo qualche chilometro, e che iniziano letteralmente a “dare dei frutti”.

A parlarne a Nigrizia è fratel Enrico Gonzales, missionario comboniano che da quattro anni lavora nella parrocchia di Abéché, capoluogo della provincia di Ouaddai, nel centro-est del Ciad.

L’intervista con il religioso si svolge nella casa distrettuale comboniana della capitale N’Djamena, in una grande sala contorniata di libri sulle lingue locali, la religione, l’attualità.

Le sfide del territorio 

Per comprendere il contesto in cui opera fratel Gonzales bisogna però proiettarsi molto lontano, a circa 900 chilometri dalla capitale verso est e leggermente verso nord e idealmente lungo strade che attraversano l’inizio del deserto e che sono spesso non asfaltate e faticose. Nell’organizzare il viaggio verso il capoluogo da N’Djamena è meglio mettere in conto una notte di pausa, più di un giorno di viaggio.

«Abéché è la porta del nord-est del paese e un importante crocevia delle rotte commerciali che vanno verso il Sudan e anche verso la Libia», spiega il missionario. Fratel Gonzales, che di formazione è anche sociologo, è arrivato qui quattro anni fa dopo aver trascorso i sei precedenti a N’Djamena. Nel suo percorso ci sono anche il Sudan con la capitale Khartoum e prima ancora l’Egitto, nella centrale parrocchia di Sakakini della capitale Il Cairo.

La parrocchia dove lavora oggi è stata fondata dai gesuiti nella prima metà degli anni ‘50 e affidata ai comboniani 13 anni fa.
Magro ed energico, il missionario parla del suo operato quotidiano ad Abéché alternando serietà e battute scherzose, consapevolezza dei problemi e ironia; disincanto e speranza si avvicendano lungo tutto il racconto, quasi fossero le tracce lasciate da una quotidianità di lavoro segnata ugualmente da complessità e soddisfazioni.

«La difficoltà principale che affrontiamo nella nostra parrocchia – confida il fratello – sono le distanze, dato che il vicariato copre un’area molto vasta: si va da Fada, quasi 400 chilometri a nord verso la Libia, ad Amjarass, circa 350 chilometri verso nord-est, fino ad Adrè, valico di frontiera con il Sudan a 150 chilometri a est».

Una comunità forte 

La comunità è quindi sparpagliata all’interno di un territorio enorme. A tenerla insieme c’è un modo di vivere la fede «molto bello» che non smette di sorprendere fratel Gonzales. «I vari villaggi che compongono il vicariato sono piccoli, poche centinaia di persone, e non di rado isolati. Eppure ognuno di questi agglomerati può fare affidamento su una chiesa: è la stessa comunità a costruirle.

E poi le persone partecipano sempre alle messe, fanno la Liturgia della Parola anche se non c’è un sacerdote. Non certo da ultimo – aggiunge il missionario -, ci aiutano anche economicamente secondo le loro possibilità».

Un sostegno fondamentale per portare avanti le varie attività di cui si occupano i missionari. Fra queste c’è il normale funzionamento delle varie parrocchie ma anche la gestione amministrativa e finanziaria delle scuole comunitarie locali (in francese Écoles communitarie associées), dall’asilo fino alla scuola secondaria.

La questione educativa 

«Alcuni di noi insegnano anche in degli istituti», spiega il religioso. «Occuparsi delle scuole è un compito ricco di sfide: il sistema
educativo ciadiano è caratterizzato dai pochissimi fondi che il governo mette a disposizione del settore e dalla loro gestione non molto trasparente, e poi da un’eredità storica complessa».

Il missionario spiega: «Le scuole con gli standard educativi più elevati sono tradizionalmente quelle cattoliche: per decenni però, le famiglie musulmane si sono rifiutate di inviare a studiare i loro figli presso questi enti. Non è più così, anzi, ma questa è una dinamica che per anni ha definito l’istruzione nel paese».

Dei 18 milioni di abitanti del Ciad, circa il 55% è di fede musulmana, mentre il 40% circa è composto da cristiani, per metà cattolici e per metà protestanti. Da questo punto di vista, la composizione della parrocchia di Abéché apre uno spaccato interessante sulla demografia ciadana, che secondo le letture dominanti è rigidamente divisa fra un nord musulmano e di
cultura araba a un sud cristiano e di ascendenza africana.

«I cristiani nativi della provincia di Ouaddai sono pochissimi e i musulmani sono maggioranza; le persone che frequentano la
parrocchia sono per lo più originari del sud. Persone – spiega il missionario – giunte in questa zona per poter lavorare come funzionari o nel governo o nelle numerose organizzazioni internazionali che operano in questa zona del paese».

Lascito tangibile di questa storia di migrazione interna, aggiunge fratel Gonzales, «è la lingua ngambaye che utilizziamo per le nostre messe; si tratta di un idioma parlato nel sud del paese».

La guerra in Sudan 

L’est del Ciad è poi indissolubilmente legato al vicino sudanese e nello specifico alla grande regione del Darfur che si affaccia subito oltre il confine. Ne deriva uno scenario multiculturale molto vivace ma anche complesso: «Abéché è terra di frontiera ed è anche un
carrefour di commerci di tutti i tipi: legali e illegali», premette il religioso.

«Insieme alla vendita legale di vestiti, derrate alimentari o bestiame ci sono i traffici illegali come quelli dell’oro: propria la città dove ha sede il nostro vicariato è la porta d’ingresso alle miniere aurifere del nord». Attività caratterizzate dallo sfruttamento di chi ci lavora e da flussi di denaro opachi che sono controllati anche da attori sudanesi e che contribuiscono ad alimentare il conflitto oltre frontiera secondo diverse fonti concordanti.

Dopo il 15 aprile 2023, giorno dello scoppio delle ostilità fra le Forze armate sudanesi e le Forze di soccorso rapido agli ordini del generale Hemeti, che secondo alcuni sarebbe nato proprio nella provincia di Ouaddai, questa parte dell’oriente ciadiano è stata sconvolta.

Dall’inizio dei combattimenti sono affluiti nel paese oltre 750mila rifugiati. Di questi, riferisce l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite (UNHCR), almeno 450mila si trovano a Ouaddai. Ad Adrè più di 250mila persone sono in attesa di essere trasferiti dai campi di emergenza dove sono stati collocati al loro arrivo.

La situazione è complessa: il valico si trova a meno di 40 chilometri da Geneina, capoluogo del Darfur occidentale ed epicentro di
violenti attacchi e potenziali crimini di guerra e contro l’umanità durante tutto il conflitto, soprattutto all’indirizzo della comunità dei masalit.

«Uno dei primi effetti di questo esodo – riporta il missionario comboniano – è che nella provincia si è instaurata una sorta di economia di guerra: i prezzi sono aumentati alle stelle e sono soggetti a inflazione costante, il carburante manca ovunque».

La zona si è fatta anche più pericolosa. «È aumentato il numero dei predoni che operano lungo le strade fuori città, spesso
protetti dai canyon che caratterizzano il paesaggio di questa zona del deserto», denuncia fratel Gonzales. «Ormai abbiamo un nostro sistema per capire la complessità della situazione: se ci sono molti tir in giro si può circolare, se ce ne sono pochi meglio stare
attenti, se nessuno è uscito con i camion e i parcheggi sono vuoti, meglio restare in casa».

Oltre il conflitto

Se nei primi mesi l’assistenza ai rifugiati che passavano il confine è stata di natura emergenziale, col passare del tempo sono stati messi in piedi una serie di progetti che guardano più in là. «Gruppi di donne sudanesi e locali lavorano insieme su appezzamenti, un
tempo aridi, che sono stati trasformati in orti nell’ambito di un progetto promosso dalla Caritas locale e da altri enti», racconta fratel Gonzales.

«Si producono una serie di prodotti agricoli che vengono consumati localmente ma anche venduti al mercato di Abéché». Il progetto, nella visione di fratel Gonzales, «rappresenta una piccola storia positiva in una situazione umanamente difficile. L’iniziativa interviene su più fronti, tutti fondamentali: la sussistenza economia e la dignità delle donne, la conoscenza reciproca».

I frutti del progetto di Caritas

Quest’ultimo aspetto è fondamentale per i missionari comboniani, che gestiscono un centro culturale ad Abéché e che portano avanti il dialogo fra le comunità anche con le attività parrocchiali e nelle scuole. «Non ci si può nascondere: nella provincia si registrano spesso
episodi di violenza – anche perchè c’è una grande circolazione di armi, sia bianche che da sparo – e la situazione non è migliorata con l’arrivo di molti profughi sudanesi», premette Gonzales.

 «Negli anni abbiamo organizzato diversi corsi di formazione alla nonviolenza, anche rifacendoci al pensiero di don Milani. Difficilmente si è andati oltre un interesse superficiale». Il missionario prosegue il suo ragionamento: «Le autorità del paese promuovono il principio della cosiddetta “coabitazione pacifica” fra cristiani e musulmani» e più in generale si cerca di incoraggiare l’appartenenza a un’unica comunità di fratelli: è un concetto molto bello ma nella pratica quotidiana ci sono tantissimi ostacoli».

Non mancano orizzonti di speranza però, conclude il missionario:  «Riscontriamo una grande differenza fra le generazioni: se
un ciadiano di età adulta si esprime ancora in termini di nord e sud, di appartenenza a una precisa comunità o a una precisa confessione, i giovani si riconoscono sempre di più nel loro essere ciadiani».

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