Sudafrica: alcuni punti fermi sull’incontro fra Ramaphosa e Trump
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Pretoria voleva parlare di economia, Washington di "genocidio" dei coltivatori afrikaner
Sudafrica: alcuni punti fermi sull’incontro fra Ramaphosa e Trump
Allineati sulla Rd Congo ma sul resto ci sono molte incognite
22 Maggio 2025
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 11 minuti
Un'immagine dell'incontro fra Ramaphosa e Trump.Foto da Youtube

«È andata molto bene». Il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa ha risposto così ai giornalisti che lo aspettavano ieri fuori dalla Casa Bianca, ancora storditi dagli adrenalinici appuntamenti che sotto l’amministrazione del capo di stato USA Donald Trump sembrano aver preso il posto dei vecchi incontri bilaterali. Parlando con i cronisti, il presidente sudafricano si è mostrato calmo, così come è rimasto calmo anche nei momenti più concitati del suo colloquio con l’omologo statunitense.

O meglio, dell’incontro fra composite delegazioni che si è svolto ritualmente in circolo, tutto attorno una pletora di giornalisti in piedi mentre sul canale Youtube della presidenza USA scorreva la diretta streaming. È la nuova, strana era della diplomazia targata Trump. Ma oltre a tutto questo serve cercare di andare al sodo. Non farsi inebetire dalla grammatica del caos scelta dalla Casa Bianca per comunicare la politica.

Un contesto tumultuoso

La premessa è che la visita di Ramaphosa negli USA e il colloquio bilaterale con Trump che si è tenuto ieri 22 maggio si sono svolti nel pieno della tormenta che sta travolgendo le relazioni fra Washington e Pretoria. Il clima si era fatto teso già a partire da gennaio 2024, da quando il Sudafrica ha deciso di denunciare per genocidio Israele presso la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite per i crimini che Tel Aviv sta commettendo a Gaza. 

Un disegno di legge per la revisione totale dei rapporti degli USA con Pretoria è stato depositato al Congresso mesi fa ed è ancora in discussione. La salita al potere di Trump da gennaio ha accelerato e impresso una piega a tratti surreale al peggioramento delle relazioni fra i due paesi. 

In poche settimane l’amministrazione USA ha accusato Pretoria di portare avanti politiche che danneggiano gli Stati Uniti. In modo particolare due: espropriare la terra e discriminare, fino ad arrivare al “genocidio”, la minoranza bianca di lingua afrikaner. E poi intrattenere relazioni con paesi nemici di Washington come l’Iran e come il partito-milizia Hamas. 

Ne ha fatto seguito un congelamento di tutti gli aiuti allo sviluppo, l’imposizione di dazi al 30% sui beni importati dal paese – poi sospeso come per tutto il resto del mondo –, l’apertura di un canale di accoglienza per le persone afrikaner che vogliono dichiararsi “rifugiati” a fronte dell’aumentare delle presunte violenze ai loro danni. Qualche migliaio di persone ha fatto richiesta e alla fine i primi 59 rifugiati bianchi sono stati accolti nel paese. 

A oggi sembra difficile inoltre, che in queste condizioni gli USA vogliano rinnovare l’eleggibilità del Sudafrica per l’AGOA, quella legge che concede condizioni agevolate ai paesi africani per esportare il loro prodotti negli USA e che scade a settembre; in Sudafrica vale circa 20 miliardi di dollari. 

Paesi diversi

Le ragioni di questa postura verso Pretoria sembrano essere principalmente due: la prima è che il Sudafrica è ritenuto vicino a paesi come Russia, Cina e Iran. Dalla fine del regime bianco dell’apartheid nel 1994 il Sudafrica ha mantenuto un posizionamento di delicata equidistanza nello scenario geopolitico internazionale: se a livello economico e istituzionale ha scelto la strada di liberismo e liberalismo, di cui gli USA sono ancora il faro, non ha mai dimenticato il sostegno dei paesi comunisti contro l’apartheid, evitando di allontanarsi da Mosca e Pechino.

Testimonianza ne è sicuramente la posizione neutrale mantenuta durante l’invasione russa dell’oriente ucraino, cominciata nel 2022. Per quanto Pretoria abbia ospitato sul suo territorio anche esercitazioni militari congiunte con Russia e Cina dopo lo scoppio della guerra. Il legame fra la causa palestinese e il principale partito di governo poi, l’African National Congress (ANC) che fu di Nelson Mandela, è storico e non si è mai indebolito. 

Oltre a questo, la “nazione arcobaleno” e il sistema normativo che cerca di renderla effettivamente tale dopo 50 anni di discriminazione istituzionalizzata a favore della minoranza bianca non piacciono agli Stati Uniti suprematisti di Trump. Tutte le politiche di discriminazione positiva e improntate al Dei (diversità, equità e inclusione) che puntellano l’architettura istituzionale del paese arcobaleno sono l’antitesi degli USA che si vorrebbero sempre più monocolore: il bianco. 

Eppure in Sudafrica ancora oggi, 31 anni dopo la fine dell’apartheid, le famiglie bianche hanno in media un reddito cinque volte superiore a quelle composte da persone nere, mentre persone bianche continuano a occupare un numero molto elevato di posizioni dirigenziali pur essendo circa l’8% della popolazione. Se si affronta il famigerato tema della terra, la contraddizione si fa ancora più chiara: questo stesso 8% possiede oltre il 70% dei territori agricoli del Sudafrica, l’80% di persone nere invece, il 4% della terra.

L’incontro

Insomma, questo sono i binari entro cui collocare la visita di Ramaphosa negli USA. Binari che sono proseguiti sotto forma di parole dentro lo Studio Ovale, due rette parallele che sembravano non volersi incontrare. Dove Ramaphosa diceva economia infatti, Trump rispondeva genocidio. 

Fin da subito il presidente sudafricano ha messo l’accento sulla necessità di focalizzarsi sugli investimenti. Stando ai dati del presidente, in Sudafrica operano 600 aziende statunitensi (22 quelle sudafricane negli USA). Washington è il terzo partner commerciale del paese africano. Soldi e legami a cui non si vuole rinunciare. 

Cominciate le domande dei giornalisti però, pochi minuti dopo i convenevoli, lo spettro del presunto tentativo di sterminio dei coltivatori bianchi ha iniziato ad aleggiare sulle delegazioni riunite alla Casa Bianca. Trump ha colpito sotto la cintura, come capita non di rado. Senza preavviso, così pare almeno da ricostruzioni giornalistiche, il presidente ha mostrato un video in cui il controverso leader dell’opposizione a sinistra del governo Julius Malema canta lo slogan “Kill the boer”, uccidi il boero, un termine usato comunemente come sinonimo di afrikaner. 

Fake news?

A seguire un filmato in cui si mostrano migliaia di croci bianche a bordo strada: secondo Trump si trattava di vere e proprie tombe di coltivatori uccisi, quando in realtà, stando alla verifica di diversi media, come Reuters e Daily Maverick, erano parte di una protesta simbolica inscenata dopo l’uccisione di due coltivatori nel 2020. 

Il canto intonato da Malema è un lascito della lotta anti-apartheid invece, su cui la giustizia sudafricana si è espressa più volte negli ultimi anni. Ultima in ordine di tempo una sentenza della Corte suprema dell’anno scorso. In quell’occasione il più alto tribunale sudafricano ha confermato una sentenza del 2022 secondo cui le parole dell’inno non possono essere considerate incitamento all’odio in quanto espressione di uno storico slogan della resistenza contro il segregazionismo, che non può essere interpretato in modo letterale.

In Sudafrica non è in corso alcun genocidio dei coltivatori bianchi. Nel paese si riscontra però uno dei più alti tassi di omicidi al mondo. Nel 2024, per fare un esempio, sono state uccise 26mila persone. Il dato relativo ai coltivatori non è semplice da estrapolare. Secondo le cifre della polizia, nello stesso anno i “farmer” rimasti uccisi sono stati 55, ma non è detto che si trattasse di persone bianche visto che le statistiche delle forze dell’ordine non presentano specifiche relative alla razza.

Nel 2021 un dato relativo al numero dei coltivatori bianchi uccisi è stato fornito dall’organizzazione afrikaner Afriforum, secondo quanto riporta Bloomberg: 59 contadini a fronte di quasi 20mila omicidi.

Insomma il problema è la criminalità, non lo sterminio dei bianchi. Ma Trump su questo non ha fatto concessioni, ripetendo ossessivamente che i coltivatori bianchi vengono uccisi a migliaia (riportando anche non meglio specificate testimonianze di suoi amici a riguardo) e sottolineando come a queste persone uccise viene poi sottratta la terra. Anche questa un’accusa che non trova riscontri nella realtà del Sudafrica. 

Chi aiuta e chi no

Eppure la delegazione che Ramaphosa si è portato con sè a Washington non ha dato una grande mano. Il primo a parlare è stato il ministro dell’agricoltura John Steenhuisen, leader del partito Democratic Alliance (DA) che per anni è stato la principale opposizione all’ANC e che ora è maggioranza in un governo di unità nazionale.

Il ministro ha ammesso che il problema degli omicidi riguarda anche tanti piccoli e medi possessori di terra, neri, ma è poi passato all’incasso politico: il video mostrato dal presidente USA è servito come assist per ricordare a tutti che la presenza delle DA nell’esecutivo garantisce che estremisti come il partito di Malema restino fuori dalla porta. La formazione del politico tacciato di fanatismo, gli Economic Freedom Fighters (EFF), costituta nel 2012 da fuoriusciti dalla lega giovanile dell’ANC, ha ottenuto alle elezioni il 9,5% dei voti, quarto partito più votato.

Ramaphosa è poi giunto a Washington con alcune figure ritenute forse in grado di ammansire il presidente USA: i due golfisti di fama internazionale Ernie Els e Retief Goosen, molto amati da Trump, e poi l’uomo più ricco del Sudafrica, il miliardario Johann Rupert. L’intervento di Goosen è stato a tratti quasi controproducente: la lotta quotidiana del fratello per gestire una fattoria del nord è stata ripresa da Trump per confermare le sue vedute sulla situazione sudafricana. 

Rupert ha ricordato invece di essere «il primo target» degli estremisti come Malema, che in effetti lo considerano da anni il capo di una “mafia bianca” che controllerebbe l’economia del Sudafrica. L’imprenditore, a capo della holding Richemont, che detiene anche Cartier, ha però sottolineato come il problema degli omicidi sia trasversale e riguardi soprattutto le persone nere.

A quel punto il miliardario ha chiesto aiuto al compagno di reddito Elon Musk, posizionato dietro un divano dietro la delegazione USA. Rupert ha chiesto sostegno tecnologico e «Starlink in ogni commissariato di polizia» per frenare il diffondersi della criminalità. 

E poi, gli affari

Intervento controverso anche quello di una figura decisamente più amica di Ramaphosa, Zingiswa Losi, leader del sindacato più grande del paese, il Cosatu. L’organizzazione è anche uno storico baluardo del consenso dell’ANC. Losi ha descritto una situazione molto difficile in relazione alla violenza nel paese, in un certo modo riaffermando il quadro fosco delineato dall’amministrazione USA. La leader sindacale ha ricondotto però la violenza della criminalità alle sue origini socioeconomiche, tornando in questo allo spartito scelto da Ramaphosa. 

E a margine del circo mediatico, di economia e di affari si è parlato sicuramente. Secondo alcune indiscrezioni Ramaphosa avrebbe pronta una proposta per Musk e per la sua Tesla. Il magnate, che in Sudafrica è nato e ha vissuto fino a 17 anni, ha per adesso scartato la possibilità di installare la sua società nel paese lamentando i parametri di inclusione delle minoranze richiesti dalla legge sudafricana.

Un nuovo pacchetto di proposte commerciali è stato consegnato al governo di Washington. Secondo Sa News 24, il piano prevederebbe incentivi per investimenti USA nel settore dei minerali critici sudafricano e poi maggiori importazioni di gas naturale statunitense. In discussione sarebbe anche un’ulteriore abbassamento delle tariffe che il Sudafrica impone in realtà su una quota minoritaria (meno di un quarto) dei beni provenienti dagli USA.

Di giornalisti sovraeccitati e cieli limpidi

Infine, difficile capire com’è andato veramente l’incontro fra Ramaphosa e Trump. Se le retorica folle relativa al genocidio non è stata scalfita più che tanto e anzi, nelle ultime ore è stata rilanciata dai media di tutto il mondo in un modo o nell’altro, dall’altra il presidente sudafricano non si è spazientito e sembra determinato a riallacciare i rapporti con gli USA, fondamentali dal punto di vista economico.

Trump e Ramaphosa inoltre, sono sembrati allineati rispetto all’impegno per la pace fra Repubblica democratica del Congo e Rwanda, impegnato in un conflitto che appare ormai endemico nella regione. Ramaphosa ha ringraziato Washington per il suo impegno per la pace in Africa centrale. Secondo Trump, il Sudafrica ha esercitato dal canto suo una «leadership regionale responsabile» nel contesto del conflitto congolese. Un parere probabilmente non condiviso a Kigali, che è più volta entrata in attrito con Pretoria, ma che assume un valore specifico se pronunciato da Trump.

Sa News 24 e Daily Maverick, due dei principali media del paese, scelgono immagini molto diverse per chiudere i loro pezzi sull’incontro: il primo si focalizza sulle parole incendiarie di Malema, che filtravano neanche fossero in filodiffusione da tutti i portatili della sala stampa, evidentemente pronta a scrivere solo di provocazioni e genocidio. Il Maverick ha invece puntato gli occhi sul cielo di Washington, rischiaratosi dopo il colloquio allo Studio Ovale. Un’immagine ritenuta appropriata per descrivere un rapporto fatto da «divergenze tempestose, ma anche da sforzi per ripristinare e riprendere il dialogo».

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