Sudafrica: il programma di Trump per i rifugiati afrikaner si sta rivelando un caos
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Gli USA hanno anche richiesto 30 visti per lavoratori kenyani che dovrebbero occuparsi delle domande d'asilo a Pretoria
Sudafrica: il programma di Trump per i rifugiati afrikaner si sta rivelando un caos
Se le motivazioni alla base di questa iniziativa appaiono discutibili, la sua attuazione sembra ancora peggiore
21 Agosto 2025
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 9 minuti
(Crediti: Casa Bianca/ Shealah Craighead).

Che il piano di accoglienza dei “rifugiati” sudafricani afrikaner avviato dagli Stati Uniti fosse destinato a peggiorare i già complicati rapporti fra Washington e Pretoria, era cosa ben prevedibile. Più si scoprono prospettive e dettagli di questa iniziativa però, e più le cose si fanno complicate. E in parte surreali.

A partire da una richiesta del governo USA di far entrare in Sudafrica lavoratori kenyani per la gestione delle domande di asilo. Questo quando solo pochi mesi fa decine di impiegati sudafricani dell’organizzazione scelta (sempre da Washington) per questa funzione venivano licenziati.

Storia di una misura assurda

La premessa è che, nei mesi scorsi, l’amministrazione del presidente Donald Trump ha annunciato un piano di «ammissione e reinsediamento, attraverso il Programma di ammissione dei rifugiati degli Stati Uniti, per gli afrikaner in Sudafrica che sono vittime di ingiusta discriminazione razziale». L’ordine esecutivo fa parte di una più ampia serie di misure punitive contro il Sudafrica, accusato di discriminare la popolazione bianca ma anche di adottare politiche aggressive contro gli USA in politica estera. 

Lo scorso maggio le prime 59 persone afrikaner sono arrivate negli Stati Uniti nell’ambito di questa iniziativa. Stando a ricostruzioni di stampa, negli ultimi tre mesi sarebbero giunte negli Stati Uniti un’altra trentina di rifugiati afrikaner.

Utile specificare che con questo termine ci si riferisce a uno specifico gruppo di abitanti del Sudafrica, composto dagli eredi dei coloni olandesi, tedeschi e ugonotti che occuparono ampie fette dell’odierno Sudafrica a partire dal 17esimo secolo. L’élite politica ed economica del sistema di potere che ha imposto l’apartheid per decenni fino al 1994 era composta in massima parte da afrikaner.

I presunti abusi commessi dal governo sudafricano, che secondo Washington giustificherebbero la concessione dello status di protezione, sono arrivati a essere definiti addirittura “genocidio” dal presidente Trump. 

Il capo di stato l’ha ripetuto più volte durante un incontro bilaterale con l’omologo Cyril Ramphosa, sempre a maggio. In quell’occasione il presidente ha anche impiegato una serie di video estrapolati dal contesto e alcune manifeste fake news per provare le sue illazioni.

Le accuse di Trump

L’accusa di genocidio e di abusi sistematici ai danni degli afrikaner, prive di fondamento alla prova dei fatti, prendono le mosse da due elementi principali. Il primo è la presunta ondata di omicidi di coltivatori bianchi che da tempo si registrerebbe nel paese.

In Sudafrica si riscontra uno fra i più alti tassi di omicidi per 100mila abitanti del pianeta. Fra le vittime ci sono anche proprietari terrieri bianchi – che dispongono del 70% della terra a uso agricolo pur rappresentando l’8% della popolazione – ma nessun dato mostra che i contadini afrikaner siano la fascia di popolazione più colpita da questi crimini.

Oltre a ciò, il governo USA accusa Pretoria di portare avanti leggi discriminatorie contro i bianchi da anni e di aver approvato di recente una misura che permette l’espropriazione senza riparazione della terra dei coltivatori bianchi. Per il presidente Trump questa pratica sarebbe inoltre già in atto. Anche qui, la realtà appare diversa.

Diverse leggi sudafricane muovono da un principio di tutela della diversità e dell’inclusione, oltre a puntare a un riequilibrio delle disuguaglianze economiche e sociali prodotte da decenni di apartheid. Queste norme comprendono anche misure di discriminazione positiva a favore delle persone nere o non bianche, per lungo tempo istituzionalmente relegate a un ruolo marginale nella società.

Pretoria ha poi effettivamente approvato lo scorso gennaio una legge sulla confisca della terra che prevede in alcune precise condizioni che questa possa tornare alla proprietà dello stato senza compensazioni per l’antico intestatario. La misura segue anni di dibattiti e di richieste di parte della società sudafricana e non fornisce alcuna specifica relativa al profilo degli individui a cui può essere tolta la terra. Soprattutto, la misura stabilisce dei criteri che rendono la confisca senza rimborso poco probabile e comunque legalmente giustificata.

La legge presenta dei margini di interpretazione ed è stata criticata duramente anche in Sudafrica e anche all’interno dello stesso, precario governo di unità nazionale che vige a Pretoria. Nessuno ha però sostenuto che nel paese coltivatori bianchi si vedono confiscare le loro proprietà agricole senza ricevere nulla in cambio. Questo, più semplicemente, in Sudafrica non è ancora mai avvenuto.

Figli di un Dio maggiore

Così, in breve, si è arrivati alle ultime vicissitudini legate al piano USA per i rifugiati afrikaner. Che, innanzitutto, potrebbe essere molto più ambizioso del previsto. Questo nonostante l’iniziativa a favore degli abitanti bianchi del Sudafrica arrivi dopo che il governo Trump ha al contrario congelato quasi completamente il sistema di accoglienza dei rifugiati provenienti dal resto del mondo, lo scorso gennaio.

Una corte statunitense ha contestato parte di questo provvedimento il mese successivo, ma la questione è ancora in discussione e nei fatti il programma del governo USA per i rifugiati risulta ancora sospeso. Ovviamente tranne che per gli afrikaner sudafricani. E questa eccezione potrebbe consolidarsi nel prossimo futuro.

Secondo un’esclusiva dell’agenzia Reuters, che ha parlato con funzionari degli uffici per i rifugiati e che è giunta in possesso di mail interne, Washington sarebbe intenzionata a fissare a 40mila il numero dei rifugiati ammissibili nel paese. Di questi, ben 30mila posti sarebbero destinati ai cittadini bianchi sudafricani.

Le cifre ufficiali verranno rese note dall’amministrazione Trump solo nelle prossime settimane, e quanto riportato da Reuters non può essere considerato cosa certa. Se dovesse rivelarsi tale però, significherebbe che oltre il 70% delle domande di asilo negli USA sarebbero destinate al Sudafrica, un paese dove non è in corso alcuna guerra o persecuzione. Mentre nel mondo si annoverano oltre 50 conflitti e decine di crisi umanitarie gravi o critiche, dalla Rd Congo al Sudan fino alla Palestina e il Myanmar.

La cifra trapelata dagli uffici di Washington è però in linea – anzi è inferiore – al numero di persone afrikaner che sarebbero interessate a trasferirsi negli USA come rifugiati, che sarebbero circa 70mila.

Questo, almeno stando a quanto dichiarato mesi fa dalla Camera di commercio degli Stati Uniti in Sudafrica (Saccusa), un’organizzazione di imprenditori che è stata ufficiosamente coinvolta nelle procedure per fare domanda di asilo subito dopo la pubblicazione del provvedimento USA.

Una trafila impossibile 

Un altro aspetto controverso rispetto alla questione dei rifugiati afrikaner è relativo a chi dovrà gestire tutto il processo. L’eventuale accettazione della richiesta è ovviamente a carico del governo. Washington ha però appaltato la gestione di tutta la trafila che precede il riconoscimento o il diniego dello status di rifugiato al Resettlement Support Centre (RSC), un’organizzazione che fa a sua volta parte del Church World Service (CWS). 

Quest’ultima è una confederazione di 17 realtà cristiane che dal 1946 a oggi avrebbe aiutato oltre 860mila persone a stabilirsi negli USA come rifugiati, secondo quanto affermato dalla stessa organizzazione sul suo sito.  

L’RSC invece, viene descritto dal Dipartimento di stato USA come un «fidato partner» del programma del governo per l’ammissione dei rifugiati da più di 20 anni. 

Il CWS ha espresso «profonda preoccupazione»  per le politiche dell’amministrazione Trump in fatto di asilo, ma al contempo accettato di ricoprire l’incarico relativo ai rifugiati afrikaner dicendosi comunque «impegnata a servire tutte le popolazioni di rifugiati idonei che cercano sicurezza negli Stati Uniti, compresi gli afrikaner che hanno diritto ai servizi».

La scelta di CWS non è stata seguita da altre organizzazioni. Secondo quanto riportato dal quotidiano sudafricano Daily Maverick, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (OIM) ha collaborato spesso con il CWS in passato, ma in questo caso avrebbe scelto di non farlo. 

La Chiesa episcopale, parte della Comunione anglicana e legata al governo USA da un programma di sovvenzioni federali, si è rifiutata di collaborare con l’amministrazione Trump nel piano di accoglienza dei rifugiati sudafricani «alla luce del fermo impegno della nostra Chiesa per la giustizia razziale e la riconciliazione e dei nostri legami storici con la Chiesa anglicana dell’Africa meridionale».

Religiosi anglicani come l’arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984, hanno avuto un ruolo molto importante durante la lotta contro l’apartheid. 

In coerenza con quanto deciso, la Chiesa episcopale ha anche comunicato che concluderà i suoi accordi di sovvenzione per il reinsediamento dei rifugiati con il governo federale USA entro la fine dell’anno fiscale. 

Come se la situazione non fosse già abbastanza complessa, a renderla ancora più intricata ci si è messa una richiesta del governo statunitense di accogliere in Sudafrica 30 lavoratori kenyani. Personale che dovrà occuparsi della gestione delle richieste d’asilo. Questo perché la filiale di RSC che si occuperà della mansione è di base a Nairobi. Il governo sudafricano ha confermato alla stampa locale di aver ricevuto la richiesta USA.

Richiesta che sarebbe stata accolta con particolare disappunto secondo quanto trapelato ad alcuni giornali, anche perché l’esecutivo di Pretoria non riconosce l’esistenza di un problema legato alla popolazione afrikaner e nega fermamente che cittadini sudafricani possano essere considerati ammissibili per una richiesta d’asilo. Non è inoltre chiaro a che tipo di visto potrebbero avere diritto questi lavoratori provenienti dal Kenya.

Washington avrebbe chiesto documenti per permanenza come “volontari”. A queste condizioni, i dipendenti kenyani di RSC non dovrebbe ricevere un compenso economico, cosa al quanto poco probabile. 

Il caso ha fatto scalpore anche perché mette in luce i disagi provocati dai tagli agli uffici per i rifugiati del Dipartimento di stato USA, eseguiti nei mesi scorsi nell’ambito di una più ampia politica di riduzione della spesa per la gestione della macchina amministrativa.

Tredici lavoratori del Dipartimento della salute e dei servizi umani, che si occupa di questioni sanitarie ma anche di sostengo ai rifugiati a livello nazionale, sono stati reindirizzati sugli uffici dell’ambasciata USA a Pretoria pur non avendo esperienza nella gestione delle domande di asilo. 

Il caso CWS

Ma c’è di più. Secondo quanto rivelato dal Maverick, gli uffici di CWS di Pretoria hanno chiuso i battenti l’anno scorso a fronte di un calo nel flusso del lavoro, con l’annesso licenziamento di circa 100 persone. L’organizzazione si occupava in Sudafrica di gestire le richieste di trasferimento verso gli USA di rifugiati provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana.

Non è chiaro perché l’organizzazione cristiana non abbia voluto assumere nuovamente i suoi impiegati sudafricani, rendendo quindi necessaria la richiesta di nuovo personale dal Kenya. 

In definitiva, la situazione appare caotica e sembra destinata a peggiorare i rapporti fra Sudafrica e Stati Uniti. Gli unici che dovrebbero passarsela meglio dovrebbero essere i rifugiati afrikaner, ma a oggi sembra che anche per le loro le cose si stiano rivelando meno semplici del previsto.

Già sono emersi i primi racconti di difficoltà economiche e di inserimento lavorativo. Anche i rifugiati sudafricani infatti, dovranno pagare lo scotto dei tagli ai servizi connessi all’assistenza voluto da Trump. 

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