Sudan: due anni di guerra e una crisi senza fine - Nigrizia
Conflitti e Terrorismo Sudan
Tra bombardamenti, sfollamenti, massacri e carestia, il nodo cruciale degli aiuti umanitari per la popolazione stremata
Sudan: due anni di guerra e una crisi senza fine
In 24 mesi il conflitto tra esercito e milizie RSF ha provocato la più grave emergenza umanitaria del pianeta e spazzato via ogni speranza di transizione democratica. Intanto nuove milizie armate rischiano di frammentare ulteriormente il paese. Una conferenza internazionale a Londra cerca soluzioni, ma le parti sudanesi restano escluse
15 Aprile 2025
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti
(Cartoon di Omar Dafallah / RD/ da dabangasudan.org)

Era il 15 aprile di due anni fa quando l’esercito nazionale (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF) si scontrarono nelle strade di Khartoum, dando inizio ad un conflitto che ha devastato il Sudan e ha innescato la più grave crisi umanitaria dei nostri giorni. Un conflitto di cui non si intravede ancora la fine.

Fino al giorno prima i due contendenti erano alleati in una giunta militare che aveva destituito, con un colpo di stato, un governo transitorio a guida civile che avrebbe dovuto guidare il paese verso un modello di governance democratica.

Fino a pochi giorni prima la giunta militare, che non era mai riuscita a formare un governo, stava trattando con le forze politiche e la società civile per la formazione di un esecutivo accettabile per il paese.

Gli scontri hanno spazzato via ogni tentativo di uscire dalla crisi politicamente e ancora oggi, a due anni di distanza, la sola voce che arriva dal Sudan è quella delle armi.

Il controcanto è quello dei lamenti della popolazione presa in ostaggio dai due belligeranti e vittima di attacchi indiscriminati alle zone urbane e perfino ai campi profughi.

Massacri e pulizia etnica

È di pochi giorni fa uno tra i più orrendi crimini del conflitto, perpetrato dalle RSF, che ha distrutto i campi di Zamzam e Abu Shouk nel Darfur settentrionale, dove risiedevano centinaia di migliaia di civili fin dal primo conflitto nella regione, all’inizio degli anni duemila. I morti, soprattutto donne e bambini, si contano a centinaia, i feriti a migliaia.

Non sono mancate operazioni di pulizia etnica e di genocidio. Le più drammatiche nel Darfur occidentale dove è stato decimato il gruppo etnico dei masalit.

Ma gravissimi episodi sono stati consumati anche nello stato di Gezira, Sudan centrale, e nella capitale Khartoum, dove decine di persone sono rimaste vittime di vendette perpetrate dall’esercito contro supposti sostenitori delle RSF.

Emergenza fame

Intanto la situazione umanitaria è definita catastrofica dalle agenzie competenti dell’ONU che hanno già dichiarato lo stato di carestia in 10 zone del paese. Una decisione che implica un processo di valutazione prudente e complesso e che viene presa solo quando sono documentate morti per fame quotidiane.  

Gli aiuti alimentari vengono bloccati da pratiche burocratiche e veti incrociati, i convogli razziati, gli operatori umanitari intimiditi e non raramente attaccati, i volontari sudanesi arrestati. Crimini di cui i due belligeranti si accusano reciprocamente.

La produzione agricola è minima. Devastata dal conflitto la più importante azienda agricola del paese, quella di Gezira, praticamente improduttiva da due anni.

Il nodo degli aiuti umanitari

Oggi, 15 aprile, si apre a Londra una conferenza internazionale ospitata dal governo britannico, cui parteciperanno la Commissione UE, diversi paesi europei, ma non l’Italia, l’ONU, l’Unione Africana e i maggiori donatori per costituire un fondo per le operazioni umanitarie in Sudan in un momento particolarmente critico per il lavoro di supporto alla popolazione civile in contesti di crisi, dopo la chiusura improvvisa delle operazioni di USAID.

Nessuna istituzione o gruppo sudanese è stato invitato. Intervistata da Radio Dabanga, la baronessa Chapman, ministra per lo Sviluppo internazionale del governo di Londra, ha precisato: “In questa conferenza non abbiamo previsto di includere le parti sudanesi perché crediamo che non ci farebbero fare passi avanti in questo momento”.

Vista la reazione del facente funzione di ministro degli Esteri della giunta militare che governa da Port Sudan, non sembra avere tutti i torti. In una conferenza stampa convocata ieri per i maggiori mezzi d’informazione britannici, ha criticato ferocemente l’occasione.

Ha fornito una visone globale della drammatica situazione del paese, attribuendone tutte le responsabilità alle RSF, accusate anche di farsi scudo dei civili. È la stessa orribile “giustificazione” del governo israeliano per i suoi attacchi a strutture civili di cruciale importanza a Gaza.

È il motivo per cui i corridoi umanitari nelle zone controllate dalle RSF, quelle dove si muore di fame, non hanno funzionato se non episodicamente. Ha anche ribadito che il suo governo è pronto ad un cessate il fuoco, a patto che le RSF depongano le armi, o poco meno.

Appello delle forze civili pro-democrazia

Approccio ben diverso alla conferenza quello di Abdalla Hamdok, ex primo ministro, rovesciato dal colpo di stato militare del 25 ottobre 2021 e presidente di Smoud (Resilienza) la più importante rete sudanese contro la guerra.

In un articolo pubblicato sul Financial Times ha ribadito che non c’è soluzione militare alla crisi del paese e ha sottolineato che solo un governo democratico a guida civile può prevenire la disintegrazione del paese.

Ha proposto che venga concordato un “London Action Plan” in cui venga incaricata una leadership civile di lavorare per la pace del paese.

Ha chiesto inoltre la costituzione di un gruppo di alto livello incaricato di coordinare le iniziative di pace. Ma prima di tutto, ha sottolineato, è necessario un cessate il fuoco umanitario per raggiungere tutte le persone in pericolo per la fame ovunque nel paese.

Nuove milizie e rischio frammentazione

Se sul piano umanitario la situazione è molto difficile e su quello politico molto complessa, è dal piano militare che vengono le maggiori preoccupazioni per il futuro del paese.

In un articolo pubblicato su The Conversation, periodico online su cui scrivono ricercatori ed esperti di autorevoli università sudafricane, il conflitto sudanese non è alla fine, anche perché i gruppi che si combattono sul terreno si stanno moltiplicando: Sudan’s war isn’t nearly over – armed civilian groups are rising.

L’autore, Mohamed Saad, ricercatore alla Charles University, dice che il conflitto si è trasformato. “Quella che è cominciata come una lotta di potere tra due fazioni militari si sta ora trasformando in un conflitto molto più ampio, caratterizzato da una frammentazione che si sta approfondendo e il sorgere di gruppi di civili armati. Nel paese stanno emergendo nuove milizie, molte formate da civili che prima non combattevano”.

La chiamata ai civili ad armarsi  è responsabilità dell’esercito. La risposta è probabilmente andata oltre le previsioni. All’inizio erano gruppi di autodifesa. Ora alcuni combattono a fianco dell’esercito, altri si sono allineati ad altre fazioni combattenti.

Altri ancora hanno connotazioni etniche e non mancano quelli che cercano potere e risorse. Una frammentazione che ha già portato al risultato di tanti conflitti locali nel contesto del conflitto nazionale più ampio.

Tra i gruppi più importanti, allineato all’esercito contro le RSF, l’autore segnala la El Baraa Ibn Malik Brigade, secondo alcuni rapporti emanazione di gruppi islamisti, compresi quelli che hanno sostenuto il  regime del deposto presidente Omar al-Bashir.   

Che cosa potrebbe succedere in una simile situazione?

“Se non si porrà un freno, questi gruppi potrebbero evolvere e stabilire zone gestite di fatto da signori della guerra dove comandanti locali esercitano un potere incontrollato. Questo potrebbe minare ogni prospettiva di una governance centralizzata in Sudan”.

Una conclusione dell’articolo molto preoccupante, davvero.

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