Sudan: Port Sudan sotto attacco - Nigrizia
Conflitti e Terrorismo Sudan
I droni lanciati dalle RSF hanno colpito obiettivi militari e civili, tra cui il porto e l’aeroporto. Intanto la Corte di giustizia dell’Aja archivia il caso intentato dai militari contro gli Emirati Arabi Uniti
Sudan: Port Sudan sotto attacco
06 Maggio 2025
Articolo di Redazione
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Per la prima volta dall’inizio del conflitto, oltre due anni fa, la capitale de facto Port Sudan, nell’est del paese, è sotto attacco da parte delle milizie Forze di supporto rapido (RSF).

Una nuova serie di attacchi con droni ha colpito questa mattina, per il terzo giorno, prendendo di mira i più grandi depositi di carburante in siti strategici – il porto sul Mar Rosso e l’aeroporto internazionale -, che rappresentano alcuni dei più grandi depositi del paese, e la base aerea militare di Osman Digna.

Colpito anche il terminal container del porto e la principale stazione per la fornitura di energia elettrica. Paralizzate le esportazioni di petrolio del Sud Sudan, che erano riprese da poco, dopo mesi di blocco, con danni anche a un importante albergo nei pressi della residenza del capo dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan.

Le esplosioni e gli incendi hanno causato la sospensione di tutti i voli in entrata e in uscita dall’aeroporto, tra cui anche quelli del Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite (UNHAS) per il trasporto di beni di prima necessità per gli oltre 500mila sfollati ospitati in città.

L’Ufficio ONU per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) fa sapere che è stato danneggiato il suo principale punto di stoccaggio degli aiuti umanitari, denunciando che “gli attacchi violano il diritto internazionale umanitario” e mettono a rischio la salute di centinaia di migliaia di persone.

Ed è riuscita ad attraccare al porto ieri anche una nave turca con 1.600 tonnellate di aiuti, tra cui cibo, abiti, tende e materiale sanitario.

Gli attacchi a Port Sudan sono stati condannati dalle Nazioni Unite, dall’Egitto – che sostiene anche militarmente il regime militare sudanese -, da Gibuti e dagli stati del Golfo, tra cui anche gli Emirati Arabi Uniti, accusati dall’esercito di fornire armi alle RSF.

L’influenza di Abu Dhabi

Accuse confermate da indagini del Dipartimento di stato americano e da autorevoli inchieste giornalistiche, l’ultima delle quali, realizzata da France 24, ha documentato il transito di armamenti prodotti nell’Unione Europea (in Bulgaria) verso gli Emirati e poi, attraverso Libia, il loro arrivo nella regione sudanese del Darfur, in violazione dell’embargo.

Un’altra linea di rifornimento di armi emiratine alla milizia sudanese, secondo quanto riportato il 27 aprile dal sito Defence Security Asia, passerebbe dallo stato federale somalo del Puntland, che avrebbe siglato con Abu Dhabi un “accordo segreto” per l’utilizzo dell’aeroporto di Bosaso come hub logistico militare. Da lì, “grandi aerei cargo avrebbero effettuato frequenti spedizioni di armi verso il Sudan, con fino a cinque spedizioni importanti registrate in alcuni giorni”.

La notizia non è stata al momento confermata da altre fonti giornalistiche. Ma analisti avvertono che la strategia degli Emirati di ampliare e consolidare la propria influenza in tutta l’Africa orientale, anche con il sostegno a gruppi armati, rischia di destabilizzare sempre più l’intera regione.

Nonostante le evidenze, Abu Dhabi ha sempre negato il suo coinvolgimento nel traffico di armi verso il Sudan e dunque il suo ruolo attivo nel fomentare il conflitto.

Per il momento, almeno sul piano giuridico e diplomatico internazionale, è riuscita ad evitare una possibile incriminazione.

Archiviata la denuncia per sostegno al genocidio

L’ultima “vittoria” è arrivata ieri, quando la Corte Internazionale di Giustizia ha dichiarato di non avere giurisdizione per avviare un eventuale procedimento nei suoi confronti e ha archiviato il caso presentato dal regime militare sudanese che accusava gli Emirati Arabi Uniti di aver violato la Convenzione sul genocidio armando e finanziando le RSF, responsabili di operazioni di pulizia etnica nei confronti delle popolazioni masalit in Darfur.

A causa della mancanza di giurisdizione, “la Corte è impedita per statuto di prendere posizione sul merito delle rivendicazioni presentate dal Sudan”, si legge in una sintesi della sentenza.

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