
Dal 19 maggio il Sudan ha di nuovo un primo ministro, nominato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, il presidente di fatto del paese. È Kamil el Tayeb Idris, un ex funzionario dell’ONU con un curriculum appropriato al ruolo da ricoprire. Non era scontato. La ricerca di una persona presentabile, qualificata e disponibile non dev’essere stata facile.
Infatti la carica era vacante dal 25 ottobre 2021, quando un colpo di stato aveva concentrato il potere nelle mani dell’esercito (SAF) e dei loro alleati di allora, le Forze di supporto rapido (RSF). I militari avevano rovesciato il governo di transizione guidato da Abdalla Hamdok, un economista, pure ex funzionario dell’ONU, che stava cercando di traghettare il paese verso istituzioni democratiche, dopo che nel 2019 un movimento popolare aveva messo fine al regime islamista del presidente Omar al-Bashir, al potere da una trentina d’anni.
Dopo un anno e mezzo di inutili tentativi di risolvere la crisi in cui il colpo di stato aveva precipitato il paese e di trovare qualcuno disponibile per la carica di primo ministro e la formazione di un governo presentabile, nell’aprile del 2023 era scoppiato il conflitto tra l’esercito e le RSF, fino ad allora alleati nella giunta golpista, e l’emergenza militare aveva posto in secondo piano l’esigenza politica.
Per uscire dallo stato di isolamento internazionale in cui il colpo di stato aveva relegato il paese, era auspicabile, infatti, “normalizzare” la situazione. Lo chiedeva, ad esempio, l’Unione Africana che aveva sospeso il Sudan perché governato da una giunta frutto di un golpe militare e, anche recentemente, aveva considerato prematura una sua riammissione.
Inoltre si imponeva una risposta politica all’annuncio della formazione di un governo parallelo, il governo del Nuovo Sudan, da parte dell’alleanza guidata dalle RSF, costituitasi ufficialmente a Nairobi lo scorso febbraio. Un esecutivo di cui l’alleanza ha elencato i compiti ma di cui non ha fornito per ora altri dettagli.
La nomina del nuovo primo ministro sudanese è stata accolta da reazioni contrastanti.
Il presidente dell’Unione Africana, il gibutino Mahamoud Ali Youssouf, ha espresso soddisfazione e supporto per la scelta di un primo ministro che “va nella direzione di un governo democratico e inclusivo”.
Dichiarazioni un po’ troppo entusiastiche, stante la deplorevole situazione dei rapporti tra i diversi attori che si muovono sulla scena politica sudanese.
Parole che hanno fatto dire alle RSF che l’Unione Africana si sta allineando alle posizioni dell’esercito, mentre avrebbe dovuto mantenere la neutralità che l’ha caratterizzata finora. Uno schieramento che potrebbe far perdere il suo fondamentale ruolo negoziale quando si riapriranno le trattative di pace.
Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterrez, non si è sbilanciato, auspicando che la nomina del primo ministro non sia che il primo passo verso un governo ad ampia base di tecnici che lavori per la pace.
Anche le forze politiche sudanesi hanno diffuso contrastanti posizioni, e non poteva essere altrimenti.
Pieno supporto da Ahmed Haroun, che ha definito Kamil Idris “un esperto nazionale indipendente”, adatto e capace di affrontare le sfide del Sudan. Haroun è ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini commessi durante la guerra in Darfu del primo decennio degli anni 2000.
È stato l’ultimo presidente del Partito del Congresso Nazionale (NCP), quello che ha garantito il potere al deposto presidente al-Bashir. Il partito è stato disciolto all’indomani della caduta del regime ed è ancora illegale nel paese. Haroun stesso è evaso dal carcere, insieme ad altri pezzi grossi dell’NCP, nei primi giorni del conflitto, nell’aprile del 2023.
Le dichiarazioni di Haroun non fanno che confermare le supposizioni di molti analisti e attivisti sudanesi i quali affermano che la direzione politica assunta dall’esercito, e di conseguenza dal governo di Port Sudan, è sostanzialmente la restaurazione del vecchio regime. È un fatto che l’NCP, teoricamente bandito, continua ad operare e a progettare un futuro per il paese. Un futuro in cui l’esercito avrà un posto fondamentale.
Improntate a preoccupazione e sdegno le reazioni delle forze non schierate con una delle due parti belligeranti.
La nomina del primo ministro è stata derubricata da Noureddine Babiker, portavoce del Partito del Congresso Sudanese come “un tentativo disperato di abbellire la faccia del governo di Port Sudan”. Babiker ha poi aggiunto che la decisione potrebbe approfondire le divisioni interne al paese invece che avvicinarle. Inoltre osserva che si tratta di “una decisione unilaterale priva di legittimità popolare e istituzionale”.
Non poteva mancare l’opinione di Abdalla Hamdok, primo ministro del governo rovesciato dal colpo di stato militare del 25 ottobre 2021, ora leader della Somoud Coalition, (somoud significa resilienza in arabo) una rete di forze politiche, movimenti di opposizione e associazioni della società civile che lavorano per una soluzione politica della crisi.
Le ultime dichiarazioni sono state rilasciate all’Associated Press il 4 giugno, dal Marocco, dove partecipava ad una conferenza sulla governance della Mo Ibrahim Foundation. Anche in questa occasione ha detto che non ci potrà essere una soluzione militare al conflitto in Sudan. Nessuno dei due contendenti è in grado di vincere garantendo l’unità e la transizione democratica del paese.
Perciò ogni tentativo di formare un governo in Sudan nelle attuali condizioni è finto ed irrilevante. Inoltre ha aggiunto: “Credere che i militari possano essere portatori di democrazia è una falsa pretesa”. Una frecciata rivolta a chi ha espresso giudizi positivi sulla normalizzazione del governo a Port Sudan.
Con ogni probabilità nessuno si aspettava che la mossa di al-Burhan avrebbe suscitato unanime consenso.
Pochi, però, si sarebbero aspettati che avrebbe messo in gioco da subito anche gli equilibri interni. Il 1° giugno Kamil idris ha sciolto il governo esistente, frutto di lunghe trattative tra le forze che lo sostenevano. Le reazioni sono state immediate. Il giorno dopo Gibril Ibrahim, ministro delle Finanze e capo del Justice and Equality Movement (JEM), movimento armato darfuriano, affermava che lo scioglimento del governo colpiva la coesione interna e violava l’accordo di Juba, con cui i movimenti armati avevano trattato la partecipazione al governo di transizione.
La dichiarazione era pesante, tanto che è intervenuto Malik Agar, vicepresidente e capo di un’ala dell’SPLM-N, un altro dei movimenti armati firmatari dell’accordo di Juba. In un incontro con il primo ministro ha assicurato l’impegno e la cooperazione di tutti perché potesse portare a termine il difficile compito che si era assunto.
Primo banco di prova, la formazione del governo stesso, da cui dipenderà la sua autorevolezza interna ma anche la possibilità di giocare un ruolo a livello regionale e internazionale. Kamil Idris dovrà dimostrare insomma di non essere una semplice figura di facciata ma di avere una propria autonomia, come ci si aspetta da un vero primo ministro.