
In Sudan, dove il conflitto è entrato nel terzo anno, c’è una vittima collaterale che seppure ferita, e spesso a morte, sta provando a non arrendersi. È l’informazione. L’informazione libera e indipendente. Sono quei tanti, troppi giornalisti messi a tacere, uccisi, costretti a fuggire o a nascondersi. E che provano a inviare notizie, resoconti, foto di quello che sta accadendo.
Da paesi limitrofi, come il Ciad o l’Egitto per chi è riuscito a oltrepassare i confini; in anonimato, rischiando anche la vita e lottando contro le interruzioni di corrente, la scarsità di segnale in molte zone, la mancanza di fondi in aree segnate dalla fame.
Altri, impossibilitati, hanno semplicemente smesso di fare il proprio lavoro. Quelli che esercitano allo scoperto lo fanno con la paura addosso e comunque controllati e forse, in qualche caso, autocensurandosi.
La libertà di stampa è sempre stato un problema nel paese. Seppure garantita in linea di principio ha trovato nei fatti molti limiti. La dittatura di Omar al-Bashir aveva messo a tacere i media, per esempio con il Press and Publications Act del 2009 che prevede un maggiore controllo sulle pubblicazioni e con il National Security Act del 2010 che criminalizza la pubblicazione di bugie e di “false informazioni” e di qualsiasi contenuto che “minacci la pace pubblica” o “indebolisca il prestigio dello Stato”.
Le cose non sono andate meglio con la caduta del dittatore.
Stampa decimata
Secondo i dati a disposizione, negli ultimi due anni, da quando cioè è iniziato il conflitto, 7 giornalisti sono stati uccisi, 28 sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco, 39 sono stati arrestati, di cui 3 ancora detenuti.
Il Sudan Media Forum (SMF), rete di giornalisti sudanesi che rappresenta anche quelli in esilio, afferma che il numero di giornalisti attivi oggi nel paese si aggira tra 250 e 300, mentre prima della guerra erano circa 1.500. Giornalisti che spesso lavorano sotto la costante minaccia, che spesso diviene effettiva, di ritorsioni e violenze.
Si stima che solo circa 70 dei giornalisti ancora presenti in Sudan lavorino nelle zone di conflitto, numero destinato probabilmente a diminuire ancora. Mentre il 90% delle sedi dei media sudanesi sono state distrutte.
Donne in pericolo
Dei giornalisti sudanesi, solo il 20% sono donne. Oggi, le professioniste rimaste sul campo si trovano ad affrontare situazioni assai pericolose. L’ultimo arresto di pochi giorni fa, condannato dal sindacato dei giornalisti sudanesi (SJS), riguarda proprio una donna, Emtithal Abdel Fadil, tenuta in carcere bendata per tre giorni a Kassala e rilasciata con l’obbligo di non lasciare la città.
E nessuno ha dimenticato Halima Idris Salim, giornalista del Sudan Bukra, uccisa nell’ottobre 2023 dagli uomini delle Forze di supporto rapido (RSF) mentre stava cercando di documentare le terribili condizioni sanitarie del reparto di emergenza di un ospedale di Omdurman.
Racconti dall’esilio
Secondo quanto è riuscita a ricostruire Reporter senza Frontiere, almeno 431 giornalisti sono fuggiti nei paesi vicini: 300 in Egitto, 71 in Uganda, 23 in Kenya, 22 in Libia e 15 in Ciad.
Una vera e propria diaspora di giornalisti che ha creato o ricreato almeno dieci organi di informazione in esilio, principalmente siti web di notizie. La capitale egiziana, Il Cairo, che ospita la più grande comunità di esuli sudanesi, è il luogo in cui i giornalisti in esilio gestiscono i canali televisivi Sudania 24 e Sudan Bukra e i giornali online Al-Sudani, Saqia Press, Al-Ghad Al-Sudani e Ufuq Jdeed.
Altri media online operano da Kampala, come Salam Media Network, Darfur 24 e Al-Taghyeer mentre il sito web investigativo Aïn e il sito web di notizie Atar coprono il Sudan da Nairobi e Beam Reports ha sede a Kigali.
Questi organi di informazione si sono uniti a una rete più ampia di siti web di notizie che lavorano dall’estero e sono sostenute dagli esuli e da organizzazioni a sostegno di giornalisti in esilio. Tra questi, la piattaforma Mashaweer da Parigi, il Sudan Tribune, quotidiano online fondato nel 2003 e Radio Dabanga, sito di notizie specializzato nel Darfur, che ha iniziato a trasmettere e pubblicare dai Paesi Bassi nel 2008.
Questi sono solo alcuni esempi di canali e siti che trasmettono da altri paesi e accolgono giornalisti costretti a fuggire dalla guerra. Anche se non sempre i paesi che li accolgono rappresentano esempi di libertà di stampa e indipendenza. Come l’Egitto, per esempio – fa notare ancora Reporter senza Frontiere – che accoglie sì un gran numero di giornalisti e media sudanesi in esilio, ma è anche il paese in cui fare questo mestiere è più pericoloso.
“Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e i suoi servizi di sicurezza e intelligence sono i principali alleati dell’esercito sudanese, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan” ricorda l’organizzazione non governativa, che sottolinea i casi di Sudania 24 TV e Sudan Bukra che hanno subito ritorsioni e chiusure forzate dai servizi di sicurezza egiziani.
Eroica resilienza
Per tornare al fronte interno, la situazione più critica è quella del Darfur settentrionale che vede le violenze esercitate sui civili sia dalle RSF sia dall’esercito regolare.
A parte alcune pagine facebook, come Salateen News Network che però dà notizie sporadiche e di fatto solo informazioni dal vicino campo di Zamzam, colpito dalla carestia e frequentemente invaso dalle Forze di supporto rapido, sono davvero pochi i professionisti dell’informazione rimasti sul campo.
Sempre secondo le analisi di Reporter senza Frontiere, degli otto canali di informazione arabi regionali con corrispondenti all’interno del paese, tra cui anche Al-Jazeera, solo il canale saudita Al-Hadath collabora con un giornalista che lavora nel Darfur settentrionale. Gli altri corrispondenti locali di questi canali hanno sede a Port Sudan e nell’area di Khartoum.
Per la maggior parte dei giornalisti, sia quelli rimasti sia quelli che lavorano dall’estero, le riunioni di redazione sono state sostituite da gruppi whatsapp, dalle testimonianze raccolte via telefono o attraverso i canali social, da telefonate rapide e spesso interrotte con parenti e amici.
Ma senza questi sforzi l’informazione dal Sudan, non la propaganda ma l’informazione, sarebbe già morta. Insieme a quei civili di cui non si conosce il numero esatto proprio perché la stampa in Sudan è diventato un altro nemico da abbattere.