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Armi, Conflitti e Terrorismo Libia Nazioni Unite Politica e Società
Abdoulaye Bathily accusa i leader libici e gli alleati stranieri di voler mantenere lo status quo
L’inviato delle Nazioni Unite in Libia lascia l’incarico
17 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Abdoulaye Bathily (Credit: UNSMIL)

Il suo mandato è durato 18 mesi e alla fine, come tutti i suoi predecessori, anche Abdoulaye Bathily, rappresentante speciale del segretario generale e capo della missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL), si è visto costretto a gettare la spugna.

Bathily ha annunciato ieri al Consiglio di sicurezza le sue dimissioni, accolte dal segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. Una resa che segna l’ennesima sconfitta per i tentativi delle Nazioni Unite di portare il paese alla stabilità.

Le motivazioni dietro la decisione dipingono un quadro estremamente cupo per il paese, dilaniato da caos politico e insicurezza dal 2011, in seguito al rovesciamento del regime di Gheddafi, e di fatto governato da due esecutivi rivali e controllato da una miriade di milizie.

Il politico e diplomatico senegalese si è detto molto scoraggiato e deluso di fronte a persone che mettono “i loro interessi personali al di sopra dei bisogni del paese”, denunciando “la mancanza di volontà politica e di buona fede da parte dei due leader libici che sono a proprio agio con l’attuale situazione di stallo”.

“La determinazione egoistica degli attuali leader nel mantenere lo status quo attraverso manovre e tattiche dilatorie, a scapito del popolo libico, deve finire”, ha aggiunto. “Sotto la mia direzione la missione ha compiuto molti sforzi”, incontrando “resistenza ostinata, aspettative irragionevoli e indifferenza verso gli interessi della popolazione” e “negli ultimi mesi la situazione è peggiorata”.

Annunciando al Consiglio di sicurezza il rinvio a data da destinarsi della conferenza nazionale di riconciliazione interlibica prevista per il 28 aprile, Bathily ha affermato che “in queste circostanze, l’ONU non ha alcuna possibilità di agire con successo”, e che non c’è “spazio per una soluzione politica”.

Interessi stranieri nella destabilizzazione

Il questo senso il diplomatico ha indicato un secondo fattore rilevante, ovvero le crescenti interferenze di attori esterni (il riferimento è in particolare a Turchia e Russia).

Parlando di un paese trasformato in un “campo di battaglia”, Bathily ha avvertito che la Libia sta per perdere la sua sovranità. Gli sforzi fin qui compiuti dall’ONU per evitare che ciò accada, ha spiegato, sono stati minati da attori esterni.

“Il Consiglio di sicurezza dovrebbe assumersi la responsabilità perché è stato il Consiglio di sicurezza che nel 2011 ha deciso di intervenire in Libia”. “Ma finora, nonostante tutti gli sforzi compiuti, invece di migliorare, la situazione sta peggiorando, anche a causa della mancanza di coordinamento degli Stati membri.”

Bathily ha quindi concluso chiedendo al Consiglio di dimostrare unità “per costringere le parti interessate libiche e regionali a sostenere gli sforzi dell’UNSMIL per ripristinare l’unità e la legittimità delle istituzioni libiche attraverso un dialogo politico”.

Abdoulaye Bathily era stato posto alla guida della missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia nell’agosto 2022, dopo le dimissioni del suo predecessore Stephanie Williams, e prima di lei di Jan Kubis, nel novembre 2021. La sua missione era quella di condurre il paese verso elezioni che dovrebbero far uscire la Libia dal lungo periodo di transizione. Un obiettivo che oggi appare sempre più complicato da raggiungere.

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Economia Etiopia Kenya Politica e Società Somalia
Africa orientale / Tensioni Somalia-Etiopia
Il Kenya propone un trattato regionale sull’accesso al mare
L’ipotesi di un protocollo che definisca i modi in cui gli stati del blocco IGAD senza sbocco marittimo possono accedere ai porti per ragioni commerciali, attualmente al vaglio dei paesi interessati, potrebbe contribuire a una de-escalation delle tensioni tra Addis Abeba e Mogadiscio e dell’intera macro-regione. Nairobi punta anche al rilancio del progetto Lapsset
24 Aprile 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 5 minuti

L’accesso al mare è certamente una delle questioni più scottanti per la regione che si estende dal Corno all’Africa orientale, dove diversi paesi – Etiopia, Rwanda, Burundi, Uganda, Sud Sudan – hanno confini solo terrestri.

In Etiopia – il secondo paese per numero di abitanti e una delle economie in più veloce crescita del continente, nonostante l’instabilità che lo caratterizza – l’accesso diretto al mare è considerato come fondamentale per lo sviluppo economico ed è tra le massime priorità del governo, come ha più volte dichiarato il primo ministro Abiy Ahmed.

All’inizio di quest’anno il governo di Addis Abeba ha pensato di poter risolvere il problema grazie ad un accordo con il Somaliland, paese che si dichiara indipendente dal 1991, ma che è considerato come regione autonoma della Somalia non solo dal governo di Mogadiscio, ma anche dalla comunità internazionale.

Il patto prevede l’affitto per 50 anni di una ventina di chilometri di costa attorno al porto di Berbera per stabilirci una base della marina militare e attività commerciali, in cambio di un futuro riconoscimento dell’indipendenza.  

Come era prevedibile, l’intesa ha provocato un grave stato di tensione con la Somalia che è sfociato, all’inizio di aprile, nell’espulsione dell’ambasciatore e nella chiusura delle rappresentanze consolari etiopiche nel paese.

L’idea di consegnare la sovranità di un tratto strategico di territorio ad un paese straniero per mezzo secolo non è piaciuta neppure nello stesso Somaliland, tanto che i parlamentari hanno chiesto il ritiro dell’accordo già firmato dal presidente, perché, a loro parere, è contrario all’interesse del paese. E dunque, per ora, il disegno di Abiy è stato bloccato.

Direttamente interessato all’intesa marittima in discussione anche Gibuti, i cui due porti, quello storico di Gibuti e quello più recente di Tadjoura, hanno assicurato la quasi totalità del traffico commerciale dell’Etiopia dagli anni Novanta – precisamente dall’indipendenza dell’Eritrea – costituendo un’entrata notevole per il bilancio del paese. L’apertura di un’altra via potrebbe tradursi in una perdita secca per l’economia gibutina.

L’ipotesi di un trattato regionale

Sembra dunque che la questione dell’accesso al mare dell’Etiopia non possa essere risolta sbrigativamente, con un accordo bilaterale.

Lo pensano anche gli altri paesi della regione, e in particolare il Kenya, che dopo aver consultato Gibuti e l’IGAD, l’organizzazione regionale per lo sviluppo, ha recentemente avanzato l’idea di un trattato regionale che definisca i modi in cui gli stati del blocco con confini solo terrestri possono accedere ai porti per ragioni commerciali.

Secondo Korir Sing’oei, sottosegretario al ministero degli Esteri di Nairobi ed esperto di diritto internazionale, l’IGAD avrebbe il ruolo diplomatico e la capacità politica per formulare un simile trattato che allenterebbe nell’immediato il pericoloso contenzioso tra Mogadiscio ed Addis Abeba, garantendo la sovranità territoriale della Somalia e un accesso al mare stabile e sicuro all’Etiopia. Inoltre contribuirebbe in modo significativo alla stabilità dell’intera zona.

L’idea è stata discussa alla metà di aprile a Nairobi dai presidenti di Kenya e Somalia, William Ruto e Hassan Mohamud. Anche il primo ministro etiopico la starebbe esaminando. Se fosse considerata in modo positivo, si passerebbe alla fase dell’elaborazione del trattato.

Intanto Kenya ed Etiopia stanno rafforzando i propri rapporti diplomatici ed economici. Lo scorso febbraio Abiy Ahmed è stato in visita ufficiale a Nairobi dove sono stati siglati “Sette superbi protocolli d’intesa”, come titolava il Daily Nation il 29 febbraio.

Torna in auge il Corridoio Lapsset

Tra l’altro, è proseguita la discussione su come facilitare il traffico commerciale tra i due paesi, compreso l’uso del porto kenyano di Lamu. Il ministro etiopico dei Trasporti e della Logistica, Alemu Sime, in un’audizione al parlamento di Addis Abeba, aveva già sottolineato l’intenzione di differenziare le rotte commerciali per ridurre la sua pesante dipendenza dai porti di Gibuti.

Aveva proseguito dichiarando che il porto di Lamu avrebbe potuto essere usato, tra l’altro, per esportare bestiame e altri prodotti agricoli attraverso il confine meridionale e dunque facilitando le regioni a sud del paese. I primi beni importati, invece, dovrebbero essere i fertilizzanti che dovrebbero arrivare a Lamu prossimamente.

Lamu, sulla costa del Kenya, in prossimità del confine con la Somalia, è il terminal marittimo del complesso di infrastrutture conosciuto come Lapsset Corridor che dovrebbe facilitare i movimenti di uomini e merci di Etiopia e Sud Sudan verso il Kenya e la costa dell’Oceano Indiano, facilitando le comunicazioni e lo sviluppo nella regione.

L’imponente progetto prevede la modernizzazione e l’ingrandimento del porto di Lamu, la costruzione di autostrade, oleodotti, ferrovie, aeroporti, centri urbanizzati con strutture moderne per l’accoglienza, l’istituzione di zone economiche speciali e il rafforzamento dei servizi necessari, come la produzione e distribuzione di energia elettrica.

La sua realizzazione procede a rilento per cause diverse, tra cui: la crisi economica dovuta alla pandemia e ai conflitti in Ucraìna e a Gaza, che hanno un forte impatto sulla regione; i problemi interni ai diversi paesi coinvolti, in particolare l’instabilità in Etiopia e in Sud Sudan; la sicurezza, dal momento che la zona è influenzata dalle attività terroristiche del gruppo qaedista somalo al-Shabaab.

I problemi suscitati dall’accordo tra l’Etiopia e il Somaliland potrebbe essere un punto a favore per la velocizzazione dei progetti del Lapsset Corridor. Non è neppure da escludere che il trattato proposto dal Kenya lo consideri come una sorta di “progetto pilota” da estendere anche ad altri paesi della regione e con simili terminal in altri punti della costa dell’Oceano Indiano.

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Arte e Cultura
Dal kiswahili all’igbo, allo youruba, gli idiomi più parlati nel continente
Africa, le 10 lingue più diffuse
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

In Africa si contano oltre 2mila lingue (africane) attive, circa un terzo degli idiomi parlati nel mondo. Con almeno 75 di queste parlate da oltre 1 milione di persone.

I progressi tecnologici, tra cui gli strumenti di traduzione basati sull’intelligenza artificiale, oltre a incentivare la celebrazione del patrimonio culturale, hanno permesso di sfruttare in vari modi il potere del linguaggio. Tuttavia, comprendere le caratteristiche uniche delle lingue più usate costituisce un elemento basilare per comprendere le diverse culture dell’Africa. Ecco una lista delle lingue più parlate nel continente.

Il kiswahili si parla principalmente nell’Africa centrale e orientale e ha collegamenti con centinaia di dialetti, poiché è predominante nella famiglia bantu delle lingue africane. Sono oltre 150 milioni gli africani che lo parlano. È tra le lingue ufficiali in Tanzania, Kenya e Uganda, ed è parlato in ampie zone della regione dei Grandi Laghi. L’Unione Africana lo ha adottato come lingua ufficiale di lavoro per il suo uso molto esteso e per la valenza culturale ed economica.

L’igbo è parlato principalmente in Nigeria. È una lingua tonale, quindi il significato delle parole dipende dalla tonalità applicata da chi parla. Comprende diversi dialetti decentralizzati che condividono l’enfasi sul significato dei nomi e l’uso massiccio di proverbi, metafore e parabole.

L’hausa, appartenente al gruppo linguistico afro-asiatico, è uno dei più antichi idiomi del mondo. Parlato dai milioni di appartenenti alla famiglia etnolinguistica afro-asiatica, facilita il settore del commercio e la comunicazione interpersonale in tutta l’Africa occidentale.

L’oromo è parlato in Etiopia e in parti del Kenya e della Somalia da decine di milioni di persone. Include una grande varietà di dialetti e di modalità diverse nel vocabolario. Fa parte del gruppo di lingue cuscitiche parlate da persone che condividono una cultura e una storia simili nell’Africa nordorientale.

Lo yoruba è parlato principalmente in Nigeria, Benin e Togo. Anche lo yoruba è un linguaggio tonale. L’ampio vocabolario è ricco di saluti, proverbi, metafore e narrazioni folcloristiche.

L’amarico è la lingua ufficiale dell’Etiopia. È la seconda lingua semitica più parlata al mondo dopo l’arabo. Derivato dall’antica lingua gheez, ha un alfabeto alquanto complesso composto di 33 caratteri chiamato fidel e la sua ricca storia letteraria risale al XIII secolo. Un aspetto distintivo della lingua è il “suono esplosivo o scoppiettante” prodotto quando chi parla pronuncia alcune consonanti.

Il fulfulde (fulani) è parlato in tutta l’Africa occidentale e centrale. Mentre la maggior parte delle lingue africane si trovano in un’area specifica, il fulfulde è parlato ampiamente, in diverse regioni. I ricercatori descrivono questo idioma dandogli un grande “valore linguistico”, per i pochi punti in comune che ha con le altre principali lingue dell’Africa occidentale.

Lo zulu è una lingua ufficiale in Sudafrica. Anche la lingua è basata sul tono, come igbo e yoruba. L’uso dei clic insieme alle consonanti è una delle caratteristiche più intriganti dell’idioma zulu. La sua tradizione orale comprende poesie, proverbi e resoconti storici.

Il mandinka ha oltre 12 milioni di persone che se ne servono in vari paesi dell’Africa occidentale: Guinea, Mali, Senegal, Gambia, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio e Burkina Faso. La forte tradizione orale promossa da questa lingua fu ulteriormente rafforzata dai griot, famosi cantastorie, custodi dei resoconti storici e del tessuto culturale delle popolazioni.

La lingua shona è la più diffusa nello Zimbabwe. Anch’essa è una lingua fondata sulla tonalità. L’uso nello shona di toni alti per la comunicazione religiosa e toni bassi per il dialogo ordinario, lo distingue da altri idiomi. Gran parte del vasto vocabolario shona è legato alla vita di famiglia e alle strutture sociali.

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Politica e Società
Intervista a Moky Makura, direttrice esecutiva di Africa No Filter
Sull’Africa serve una “narrazione della speranza”
Sovvertire gli stereotipi di un continente di cui si parla solo in termini di miseria, guerre, corruzione e malattie si può. Ce lo conferma la direttrice di ANF, incontrata al Festival internazionale del giornalismo a Perugia, che ci ha spiegato cos’è il “giornalismo delle soluzioni”
23 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Moky Makura (Credit: screenshot Youtube)

Cambiare la narrativa sull’Africa – quella perennemente concentrata su conflitti, corruzione, povertà, malattie – non è una missione impossibile. È questione di metodo, di attenzione, di serietà professionale e persino di curiosità, quella che consente di guardare oltre e guardare altro.

Un metodo che da quattro anni sta applicando Africa No Filter (ANF), nata con un chiaro obiettivo: rappresentare la dinamicità e la varietà del continente al di là dei consolidati stereotipi e cliché con cui questo è stato (e continua ad essere) rappresentato.

Al Festival internazionale del giornalismo di Perugia, giunto quest’anno alla XVIII edizione, abbiamo intervistato Moky Makura, direttrice esecutiva di ANF, invitata a tenere un panel dal tema Africa: esplorare nuovi modi di informare.

E allora, Moky, quali sono – o dovrebbero essere – questi nuovi modi?

Raccontare più storie sull’Africa, inquadrarle meglio, esaminarne e presentarne la complessità. E poi: redazioni in cui vengano rappresentate le diversità e siano presenti più giovani; dare maggiore spazio al “solutions journalism”, vale a dire quel giornalismo che indaga e spiega, in modo critico e chiaro, come le persone cercano di risolvere problemi ampiamente condivisi.

Inoltre, è necessario un tipo di racconto che parli di speranza, alimenti la speranza. Tecnicamente abbiamo bisogno di long stories, certo, ma anche di articoli brevi, e dell’uso di differenti formati. Ma soprattutto, e questa è la sintesi, abbiamo bisogno di un giornalismo che con sincerità faccia la differenza nel modo di presentare le storie.

Africa No Filter è nato quattro anni fa. Che impatto ha avuto e sta avendo? Credi che questo progetto abbia fatto la differenza?

Credo che la rappresentazione dell’Africa sia migliorata negli ultimi anni, non voglio dire che è dovuto interamente al nostro lavoro ma è così che sta andando. Credo che ci sia più consapevolezza nei giornalisti e ci sono più giornalisti africani sul campo, nelle redazioni, che incidono sulle scelte e sui modi di raccontare le storie.

C’è una nuova generazione di giovani giornalisti che fanno esperienza dell’Africa e la vivono in un modo differente dal passato, dove anche la musica, il cibo, l’arte, i film sono oggetto di attenzione. Insomma, un nuovo approccio del giornalismo allo storytelling.

Le cattive notizie esistono ed esiste una narrazione che le esalta ma tra queste ce ne sono altre, migliori. E trovo comunque che anche le “bad news” si stiano raccontando in un modo diverso.

Come lettrice, in percentuale, quante bad news ti capita di leggere riguardo al continente africano e quante che riguardano storie belle, di cultura, di arte per esempio?

Devo dire che nei media globali ancora il 70% delle notizie pubblicate sono bad news, intendo notizie che mettono in primo piano i problemi dell’Africa. Solo il 30% rappresenta il resto. Ma ogni paese ha problemi e aree dove le cose non vanno bene.

Per quel che riguarda l’Africa la questione è il focus costante su cosa non va, sulle cattive notizie, appunto. Se costantemente si racconta alle persone cosa non funziona, corruzione, povertà conflitti, malattie, ci si convince che quella è l’unica realtà. Ecco perché c’è bisogno di cambiare non solo il focus ma anche come raccontiamo le storie.

È per questo che credo che il “solution journalism” sia la risposta per quanto riguarda il modo di rappresentare l’Africa. Abbiamo tante sfide, certo. Abbiamo dittatori, certo, la corruzione, sì, ed è parte del ruolo dei media raccontare queste cose ma tutto questo non rappresenta la società intera, bisogna raccontare anche il resto, la ricchezza di quello che accade e costituisce le società africane.

In alcuni paesi africani regimi autoritari rendono difficile esercitare la libertà di stampa, è difficile portare a galla quelle bad news su cui sembra concentrarsi la stampa occidentale o fare inchieste per timore di ripercussioni.

Questo è vero. In questi casi sono essenziali la cooperazione e le partnership tra colleghi o progetti giornalistici. Ci sono storie che i giornalisti locali non possono raccontare per questioni di sicurezza, per proteggersi, ecco perché in alcuni casi è importante che lo facciano pubblicazioni estere che lavorano con giornalisti del posto e quando la storia è venuta fuori, a quel punto può essere coperta a livello locale.

Ma, ancora una volta, ricordiamo che questo non riguarda e non accade solo in Africa. Comunque, proprio in quei paesi dove ci sono difficoltà economiche, politiche, c’è bisogno di elementi più positivi. Cosa può funzionare davvero, anche in situazioni e condizioni difficili, è la speranza, perché se non c’è speranza non c’è neanche cambiamento.

La libertà di stampa in alcuni paesi è un problema è vero, ma penso anche che di questa libertà non si dovrebbe abusare. Mi spiego: siccome puoi coprire qualunque cosa perché scegliere sempre e solo quello che va male rispetto a quello che funziona? Anche i giornalisti africani dovrebbero raccontare non solo una porzione di quello che accade.

Parliamo di un altro stereotipo, quello che riguarda le migrazioni e i migranti…

Il numero di africani che vengono in Europa è minuscolo, assolutamente microscopico paragonato al numero di africani che rimangono in Africa. Io combatto anche contro questa narrativa, che è sbagliata.

La migrazione è una questione globale e magari la gente non sa che in realtà la maggioranza dei migranti nel mondo non sono africani, sono asiatici. Inoltre la migrazione più forte è quella all’interno del continente. Il Kenya, ad esempio, è uno dei maggiori paesi al mondo che ospita migranti.

Quando si pensa ai migranti si presuppone sempre che gli africani vogliano scappare dai loro paesi. Non è così. Molti nigeriani non ottengono un visto regolare per entrare in Italia solo perché siamo stereotipati. Capisco che i paesi abbiano bisogno di proteggere i loro confini ma considerare tutti come potenziali migranti in fuga non è giusto.

Ti racconto un fatto recente come esempio: uno dei miei colleghi ha ricevuto una prestigiosa borsa di studio per trascorre un mese in un’istituzione culturale italiana. Quest’uomo ha un buon lavoro in Nigeria, aveva un invito dell’organizzazione, ma gli è stato rifiutato il visto e così non ha potuto partecipare alla “residency”.

Penso che queste cose siano un problema, il mondo è sempre più globalizzato, tante decisioni, tante cose importanti che accadono nel mondo non possono restare chiuse in una stanza, tutti devono esserne partecipi e beneficiari. Va bene proteggere i confini ma non bloccate chiunque, non usate stereotipi nei nostri confronti.

Ci sono leader africani che con le loro politiche e atteggiamenti non aiutano a guardare l’Africa sotto altri aspetti, anzi alimentano i pregiudizi.

Sì, bisogna riflettere su quanto noi contribuiamo all’immagine negativa del continente. Oltretutto molte delle notizie a livello globale riguardano la politica e i nostri leader. Ho scritto un pezzo proprio su questo, African leaders behaving badly (I leader africani si comportano male). La verità è che sì, sono responsabili di molti degli articoli e narrazione negativa riguardante il continente.

Però non possiamo rappresentare un intero paese attraverso il suo leader. È come definire l’America attraverso le azioni di Trump e dire che gli americani sono tutti pazzi. Ecco perché è importante il tipo di storytelling, sono importanti narrazioni con maggiori sfumature.

La Nigeria non è Bola Tinubu. Ci sono le persone, la loro vita e i loro sforzi quotidiani. Persone che hanno aspirazioni. Raccontare solo i leader, ciò che li riguarda, la politica, rappresenta solo un decimo dell’intera storia.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Economia Nigeria Politica e Società Tanzania
Il colosso della difesa ha firmato un contratto anche con la Tanzania per la cessione di due C-27J Spartan
Leonardo, affari d’oro in Nigeria
L’accordo con Abuja prevede la vendita di 24 aerei militari M-346. I primi 6 entro la fine del 2024. Il 17 aprile scorso un alto dirigente dell’azienda italiana ha incontrato il ministro della difesa per i dettagli finali. Per alcuni siti del settore si parla di un business da circa un miliardo di dollari
24 Aprile 2024
Articolo di Gianni Ballarini
Tempo di lettura 4 minuti

La Nigeria è il paese subsahariano a cui abbiamo venduto più armi nel 2023. Secondo la Relazione governativa italiana di import ed export di armamenti, il valore supera i 93 milioni di euro.

Briciole rispetto al business che Leonardo ha concluso con l’aeronautica militare nigeriana (NAF). Entro fine anno arriverà ad Abuja il primo lotto di sei aerei militari M-346 di Alenia Aermacchi. Ma i lotti in totale saranno 4 per un totale di 24 aeromobili da combattimento.

Il costo del singolo velivolo varia in base alla sua configurazione. Alcuni media di settore – come Air & Cosmos International o come Italian Defence Technologies – parlano di un affare da 1,2 miliardi di dollari.

Dipinti come aerei di addestramento, in realtà sono predisposti anche per missioni di attacco terrestre, marittimo e per missioni di pattugliamento. Le capacità multi-missione e gli armamenti avanzati che hanno in dotazione «rafforzeranno la capacità della Nigeria di rispondere a una serie di sfide sulla sicurezza». Così lo stato maggiore dell’aeronautica ha giustificato l’acquisto.

L’accordo di vendita era stato raggiunto due anni fa.

La visita di Sabatino

A sigillare definitivamente la vendita è arrivato ad Abuja, il 17 aprile scorso, Claudio Sabatino, vicepresidente marketing e vendite per l’Africa subsahariana di Leonardo Aircraft. L’alto dirigente ha fatto visita al quartier generale della NAF.

Sabatino ha rassicurato Hasan Bala Abubakar, capo di stato maggiore dell’aeronautica, che le 4 consegne non subiranno ritardi rispetto alla tempistica fissata e che l’accordo vincola Leonardo per 25 anni per il supporto alla manutenzione degli aerei.

Ma la sua visita è stata anche l’occasione per definire altri aspetti del progetto, come l’inizio della formazione dei piloti e dei tecnici nigeriani. All’inizio si era parlato di utilizzare, per lo scopo, la scuola internazionale di volo di Galatina e la base aerea di Decimomannu, in Sardegna.

Quali missili trasporta?

Secondo il sito specializzato Military Africa, l’ M-346 può trasportare diversi tipi di munizioni, «inclusi missili aria-aria a corto raggio Iris-T, o Aim-9 Siderwinder, vari missili aria-superficie, missili antinave, bombe e razzi a caduta libera e a guida laser».

Defence News ha scritto che «l’anno scorso Leonardo ha sottoscritto un accordo per montare il cannone 20M621 da 20 mm di Nexter»

Gli M-346 fanno parte di un pacchetto di nuovi aerei militari acquistati (o in procinto di essere acquistati) dalla Naf, tra cui sei elicotteri d’attacco T-129 delle industrie aerospaziali turche (un’evoluzione dell’elicottero A129 Mangusta, dell’italiana AgustaWestland); due aerei da trasporti Beechcraft King Air 360 di produzione americana; quattro aerei da sorveglianza Diamond DA-62 dell’azienda austriaca Diamond Aircraft Industries.

Un buon cliente

Ma tra gli acquisti ci sono anche 12 elicotteri Agusta A109 Trekker, sempre del gruppo Leonardo. La NAF, così, si rivela un buon cliente per la multinazionale italiana, almeno considerando gli ordini precedenti all’M-346, tra cui gli aeromobili C-27J Spartan, gli elicotteri AW139, gli AW189 e, appunto, gli AW109.

La Nigeria sta investendo sempre più nel militare. L’ultimo rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute)  mostra che c’è stato un incremento del 20% della spesa della Nigeria, il principale finanziatore militare della subregione.

Spesa che ha raggiunto i 3,2 miliardi di dollari nel 2023 giustificati da Abuja per le numerose sfide alla sicurezza cui deve far fronte.

Mercato tanzaniano

Leonardo sta tuttavia estendendo il suo mercato anche in Tanzania.

Il 9 gennaio scorso, il ministro locale della difesa, Stergomena Tax, ha firmato un contratto con Leonardo per la consegna di due aerei da trasporto C-27J Spartan per il Comando dell’aeronautica militare.

L’Alenia C-27J Spartan è un aereo da trasporto militare sviluppato e prodotto dalla divisione velivoli di Leonardo. È un derivato avanzato del precedente G.222 dell’ex Alenia Aeronautica. I C-27J Spartan saranno operativi presso la base aerea di Dar Es-Salaam/Julius Nyerere. Non è stata rivelata una loro data di consegna.

L’aereo da trasporto militare è stato scelto da operatori di 16 paesi in tutti i continenti.

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