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Armi, Conflitti e Terrorismo Sudan
I due belligeranti assenti dalla conferenza di Parigi sulla crisi umanitaria
Sudan. Un anno di guerra, un paese diviso e isolato
Il devastante conflitto non è mai stato al centro degli interessi della diplomazia internazionale, offuscato dalle guerre in Ucraìna e a Gaza. Eppure ha provocato la più grande crisi umanitaria in atto oggi nel mondo. Le agenzie parlano di una “catastrofe imminente” per la popolazione, di fatto tagliata fuori dagli aiuti internazionali anche per la tendenza a utilizzare la fame come arma di guerra
15 Aprile 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 6 minuti
Rifugiati sudanesi fuggiti in Ciad dalla regione del Darfur, una delle più colpite dalle violenze (Credit: Dabanga / social media)

La conferenza dei donatori che si è aperta oggi a Parigi, primo anniversario dello scoppio del conflitto che devasta il Sudan, può essere vista come un quadro delle condizioni in cui versa il paese.

La conferenza intende affrontare in prima istanza la situazione umanitaria, di una gravità e complessità eccezionali per il paese e per la regione intera, a detta di tutti gli osservatori e attori della comunità internazionale coinvolti.

Il primo obiettivo che i convenuti si pongono è quello di raccogliere fondi per aumentare il finanziamento delle richieste contenute negli appelli che le agenzie dell’ONU hanno lanciato all’inizio dell’anno, secondo cui per affrontare la crisi sudanese servirebbero 4,1 miliardi di dollari.

1,4 miliardi sarebbero necessari per i quasi 2 milioni di rifugiati nei paesi limitrofi. 2,7 miliardi servirebbero invece per gli sfollati e la popolazione in Sudan. Di questi, alla fine di marzo, ne erano stati raccolti solo 155,3 milioni, il 6% del totale.

Catastrofe incombente

Le ragioni di una tale mancanza di supporto sono molteplici, ma due pesano in modo particolare: l’insufficiente attenzione della comunità internazionale e la difficoltà di portare aiuto alla popolazione con le modalità messe a punto durante le crisi umanitarie degli ultimi decenni.

Il conflitto sudanese sembra uscito dai radar dell’informazione, e probabilmente anche dell’urgenza diplomatica, oscurato dal confitto russo in Ucraìna e soprattutto dalla crisi di Gaza, percepiti come più pericolosi e incombenti perché impattano più direttamente sulle relazioni tra l’Occidente e l’Oriente, portatori di due visioni della società e delle relazioni internazionali che sembrano, al momento, inconciliabili.

Inoltre le modalità con cui i due belligeranti si confrontano sul terreno rende molto difficile e pericoloso portare soccorso alla popolazione utilizzando gli strumenti e l’esperienza maturata in decenni di lavoro nel contesto di emergenze umanitarie.

Secondo The Hunger’s grip. The Looming catastrophe of Famine in Sudan (La stretta della fame. L’incombente catastrofe della carestia in Sudan), rapporto pubblicato nei giorni scorsi dal centro studi sudanese Fikra for Studies and Development, “la fame è diventata un’arma di guerra in diverse aree” del paese.

Le due parti che si combattono “hanno razziato i mercati, scacciato i contadini dalle loro terre, attaccato le grandi aree di produzione di cereali e distrutti i magazzini dove era stoccato il cibo”. La strategia stessa utilizzata per prevalere nel conflitto rende dunque problematico intervenire in soccorso della popolazione, per la violenza dei combattimenti e per la difficoltà di garantire agli operatori umanitari gli standard di sicurezza necessari.

Secondo il rapporto, gli unici che hanno potuto portare soccorso sono stati i sudanesi stessi. In particolare vengono citati i Comitati di resistenza, “democratici e decentralizzati” che hanno organizzato “emergency rooms, con cucine comunitarie, sistemi di comunicazione e servizi sanitari che hanno tenuto viva la speranza”.

Interlocutori nuovi efficaci, efficienti e dedicati, a detta del rapporto e di numerose altre testimonianze, ma che possono diventare difficilmente interlocutori delle agenzie dell’ONU che raccolgono e distribuiscono gli aiuti internazionali.

La conferenza di Parigi si pone perciò anche un secondo obiettivo: spingere per un cessate il fuoco di lunga durata che permetta di portare aiuto sul terreno ed evitare la catastrofe umanitaria incombente.

Ricorrendo, magari, a strumenti sperimentati in altri contesti, come suggerito da un documento di Yasir Arman, membro della leadership del Tagadum, il coordinamento delle forze civili contro la guerra. Yasir, allora dirigente del SPLM, ricorda che nel 2002, durante la guerra civile che portò all’indipendenza del Sud Sudan, fu organizzato un team per il monitoraggio della protezione dei civili (Civilian Protection Monitoring Team – CPMT) che fece la differenza nel proteggere la popolazione e nell’investigare sulle violazioni dei diritti umani.

Un intervento “urgente, strategico e concreto” per rispondere ai costi enormi che i civili stanno soffrendo, chiede anche un appello congiunto di numerose organizzazioni internazionali. Si rivolgono ai vertici della Commissione europea e degli stati membri dell’Unione e lo hanno diffuso in occasione dell’apertura della conferenza di Parigi, organizzata dai ministri degli Esteri francese e tedesco e dal commissario europeo Josep Borrell.  

L’isolamento dei due belligeranti

All’incontro sono stati invitati i ministri degli Esteri dei paesi dell’area a vario titolo e in diversa misura coinvolti nella crisi, insieme a quelli dei paesi che hanno avuto o potrebbero avere un ruolo attivo nella ricerca di una soluzione del conflitto, quali Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Norvegia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Partecipano anche le organizzazioni internazionali, e in particolare l’ONU, la Lega Araba, l’Unione Africana e l’IGAD, l’organizzazione regionale con sede a Gibuti attorno al cui tavolo generalmente si svolgono i negoziati riguardanti le crisi nel Corno e nell’Africa orientale.

Gli organizzatori avrebbero facilitato anche la presenza di numerosi sudanesi, in rappresentanza delle forze politiche e delle associazioni della società civile, che avranno la possibilità di confrontarsi anche in un evento a latere, presso l’Institut du Monde Arabe, istituzione culturale nel centro di Parigi.

Non sono stati invitati, invece, i rappresentanti delle due parti belligeranti.

Ali Elsadig, ministro degli Esteri del governo militare, da Port Sudan – la capitale provvisoria del paese dal momento che Khartoum è quasi del tutto controllata dalle RSF e ormai simile ad una città fantasma – ha diffuso una nota furente in cui esprime “il suo massimo stupore e condanna” per la conferenza che discuterà temi di grande importanza, inerenti un paese sovrano, senza la presenza del suo governo.

Non si può pensare che i vertici dell’Unione Europea l’abbiano fatto per errore. La decisione può essere considerata, piuttosto, come un segno della situazione del paese nella diplomazia internazionale dopo un anno di conflitto.

Potrebbe voler indicare che il governo di Port Sudan non può essere considerato legittimo, in quanto emerso da un golpe militare (il 25 ottobre 2021) che ha portato il paese alla guerra civile. Inoltre rappresenta una sola delle due parti in cui ormai è, di fatto, diviso il paese. Infine si rifiuta di sedere agli stessi tavoli dove siede anche l’altro contendente, suo stretto alleato nel colpo di stato fino al 15 aprile dello scorso anno, quando i due hanno imbracciato le armi portando il Sudan sull’orlo della catastrofe.

Questo rifiuto di ogni contatto con i paramilitari RSF (Forze di supporto rapido), ormai definite come formazione terroristica, ha fatto finora fallire tutti i tentativi di negoziato e ha determinato la condanna, in contumacia, anche dei leader delle forze politiche che hanno tentato di discutere con loro del futuro del paese, discussione cui il governo di Port Sudan si è negato.

Evidentemente è una posizione che non è servita a qualificarsi come unico rappresentante del popolo sudanese, ma ha piuttosto determinato un isolamento che non favorisce gli interessi del paese.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Chiesa e Missione Congo (Rep. dem.)
Il cardinale Fridolin Ambongo Besungu è intervenuto sulla drammatica situazione nell’Est del paese
Rd Congo: le denunce dell’arcivescovo di Kinshasa irritano il governo
23 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti
Il card. Fridolin Ambongo Besungu

Ha suscitato reazioni negative da parte di alcuni membri del governo di Kinshasa la coraggiosa denuncia che il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, ha fatto riguardo al graduale degrado nelle regioni orientali della Repubblica democratica del Congo, in seguito al conflitto e alle violenze perpetrate anche verso la popolazione da decine di gruppi armati.

Una recente intervista da lui rilasciata all’agenzia Fides è stata interpretata dalle autorità governative come un’accusa diretta alle autorità civili, basata su tesi e argomenti di altrettante denunce contro Kinshasa da parte di nazioni attualmente in conflitto con la Rd Congo.

Un chiarimento al riguardo è stato fatto dalla stessa agenzia, secondo la quale le parole del cardinale sono state interpretate in modo errato. Ha infatti negato che il prelato abbia mai detto, ad esempio, che “il governo ha distribuito armi aggiuntive a diversi gruppi armati come gli wazalendo e ad alcuni membri delle Forze di liberazione del Rwanda (FDLR)”.

E ha voluto precisare la vera posizione di mons. Fridolin, che si pronuncia anche in nome dei vescovi del paese.

Il cardinale denuncia infatti che:

1) la guerra nella Rd Congo è causata dall’intento predatorio delle ricchezze del suolo e del sottosuolo da parte di entità e governi stranieri, così come dalla volontà espansionista di alcuni dei suoi vicini, compreso il Rwanda.

2) La guerra beneficia della complicità interna di agenti congolesi.

3) L’insicurezza generale e l’aumento di profughi e rifugiati avviene soprattutto a causa della proliferazione dei gruppi armati.

4) La soluzione alla crisi regionale non può essere di natura militare, ma deve passare essenzialmente attraverso il dialogo tra congolesi, altri governi e comunità internazionale.

Certamente la denuncia del presidente dei vescovi congolesi riguarda anche iniziative internazionali e decisioni che appaiono forme di “neocolonialismo”.

Ad esempio lo scorso 21 marzo, il card. Ambongo aveva denunciato con chiarezza l’accordo firmato tra l’Unione Europea e il Rwanda «per lo sfruttamento delle materie prime e di altre risorse che, in realtà, non si trovano in Rwanda ma nell’est della Rd Congo».

«Questo – aveva sottolineato l’arcivescovo di Kinshasa – è intollerabile e crea molta confusione in una regione, quella dei Grandi Laghi, che vive già forti tensioni».

Nella recente intervista il cardinale dichiarava: «Sempre più critica appare la situazione a Goma, capitale del Nord Kivu, nell’est del paese, dove i guerriglieri dell’M23 (sostenuti dal Rwanda, ndr) hanno ripreso le armi dal 2021 e hanno occupato diverse città. Ciò che temiamo di più è il rischio di insicurezza generale, soprattutto a Goma ma anche in generale in tutta la regione orientale».

Il cardinale menzionava tra l’altro il gruppo wazalendo (“patrioti” in lingua kiswahili), una coalizione di gruppi che hanno imbracciato le armi per difendere la popolazione contro l’M23.

Il fondatore del gruppo, Éphraïm Bisimwa, leader di una setta messianica locale, era stato condannato a morte lo scorso ottobre in seguito a gravi incidenti avvenuti il 30 agosto 2023 durante proteste contro la presenza dei caschi blu della missione ONU (MONUSCO) nel paese e a Goma, dove rimasero uccise oltre 50 persone.

«L’arresto e la condanna a morte del leader di wazalendo – aveva detto il cardinale – ha dimostrato che questo gruppo non è omogeneo. Alcuni dei suoi seguaci sono entrati addirittura nelle file dell’M23. È difficile controllare questi gruppi armati, che fanno capo a molti leader».

E aggiungeva: «I gruppi armati d’ogni sorta, alla fine diventano un pericolo per la popolazione, estorcono denaro ai cittadini, commettono rapine e omicidi, e si dedicano al commercio illegale di minerali estratti nelle miniere artigianali della regione».

I vescovi della provincia ecclesiastica di Bukavu, nel Sud Kivu, hanno diffuso a metà aprile una lettera pastorale che presenta un’analisi critica molto chiara della realtà nell’est del Congo.

«La Chiesa stessa nella regione opera in condizione di grande pericolo – ha sottolineato Fridolin – e i vescovi della provincia di Bukavu, come tutti noi a livello nazionale della Conferenza episcopale congolese (CENCO), abbiamo deciso di sostenere la popolazione in questo momento difficile. Questo è ciò che la Chiesa sta cercando di fare, pur nelle condizioni estremamente critiche in cui tutti si trovano immersi».

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Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società
Le Camere britanniche approvano la legge. Le Nazioni Unite si appellano alle compagnie aeree perché boicottino i voli
Patto Rwanda-Regno Unito: via libera alle deportazioni
23 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti
Il premier britannico Rishi Sunak

«Non ci sono se e non ci sono ma. I primi voli decolleranno entro 10/12 settimane». Dopo una nottata di discussioni è questo il commento con cui il premier Rishi Sunak chiude l’annoso capitolo del controverso patto Rwanda, che prevede il trasferimento nel paese africano dei richiedenti asilo che arrivano nel Regno Unito senza documenti. Nell’attesa di una presa in carico della loro richiesta d’asilo, le persone che arrivano attraversando la Manica in barchini di fortuna verranno deportate.

A sentire il primo ministro gli aerei sarebbero pronti, per cui i vari organismi internazionali e le realtà associative di attivisti per i diritti umani si dovrebbero arrendere una volta per tutte. «Nessun tribunale internazionale ci fermerà». Sarà per questo che gli esperti delle Nazioni unite ieri si appellavano alle compagnie aeree e alle autorità aeronautiche chiedendo di boicottare i “traslochi illegali”.

Stando a quanto commentano gli esperti ONU, queste realtà si renderebbero complici delle violazioni dei diritti umani che sono garantiti per legge e che sono già stati richiamati in passato dai tribunali che hanno bocciato l’accordo Regno Unito-Rwanda. «Come sottolineano i principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, i regolatori dell’aviazione, le organizzazioni internazionali e gli attori economici sono tenuti a rispettare i diritti umani».

Ma ieri, a tarda notte, è di fatto finito il rimpallo tra le camere dei Lord e dei Comuni. L’ostruzionismo della prima, la settimana scorsa, aveva respinto l’ennesimo tentativo della camera dei Comuni di modificare e portare a casa l’accordo deportazione, ma ora c’è il via libera parlamentare. Il decreto legge è passato, e Sunak e i conservatori hanno ottenuto di considerare il Rwanda paese terzo sicuro, nonostante report internazionali raccontino tutt’altra storia.

Ultimo step sarà la promulgazione, da parte di re Carlo III, della legge. Cosa che, stando a quanto scritto dai giornali britannici, potrebbe avvenire a stretto giro visto che, emendamento su emendamento, richiesta dopo richiesta, tutto è caduto sotto il voto dei conservatori che hanno la maggioranza alla camera dei Comuni.

Maggioranza che si è di fatto arrogata il potere di ignorare il diritto internazionale e nazionale sui diritti umani, bypassando di fatto una sentenza della Corte suprema del Regno Unito secondo cui l’invio di migranti con un biglietto di sola andata a Kigali è illegale.  

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Pace e Diritti Politica e Società Zimbabwe
Incluse persone che erano state condannate alla pena di morte, commutata poi in ergastolo
Zimbabwe: Mnangagwa grazia 4mila detenuti
Le carceri del paese restano sovrappopolate
22 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti
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Sono oltre 4.000 i detenuti che hanno ritrovato la libertà in Zimbabwe per effetto di un’amnistia concessa dal presidente Emmerson Mnangagwa. Il provvedimento è il secondo di questo tipo in meno di un anno e mira ad alleviare lo stato di sovrappopolamento in cui versano le carceri del paese. Fra i reclusi che sono stati liberati figurano anche alcune persone che erano state originariamente condannate a morte e la cui pena è stata poi commutata in ergastolo.

La misura è stata annunciata in occasione del 44esimo anniversario dell’indipendenza del paese, raggiunta dalla Gran Bretagna il 18 aprile 1980 dopo circa 90 anni di dominazione coloniale. Il ritorno alla sovranità dello Zimbabwe ha portato all’abbandono del vecchio nome Rhodesia e soprattutto al superamento, dopo oltre 15 anni dl lotta di liberazione, di un regime di segregazione razziale che vigeva nel paese dal 1964. Da quando, ovvero, la minoranza bianca della popolazione aveva preso il comando e dichiarato unilateralmente l’autonomia da Londra. Anche le politiche della precedente amministrazione britannica erano comunque segnate da una netta gerarchizzazione su base razziale a favore dei bianchi.

Stando a quanto riportato dai media locali, la grazia annunciata da Mnangagwa riguarda solo gruppi specifici di detenuti. Fra questi vi rientrano tutte le donne e i minori di età che hanno scontato almeno un terzo della pena e tutti gli uomini di età superiore ai 60 che hanno trascorso dietro le sbarre l’equivalente di almeno un decimo della condanna, oltre che i detenuti malati terminali e le persone non vedenti o con altre gravi disabilità che hanno trascorso in carcere almeno un terzo del tempo previsto dalla giustizia di Harare. Libere anche le persone in carcere senza un’accusa formale da almeno 48 mesi. A beneficiare dell’amnistia anche quei carcerati che si erano visti commutare la pena da condanna a morte in ergastolo e che hanno passato in prigione almeno 20 anni. Oltre a questo, tutti i condannati a morte che hanno passato in carcere almeno 10 anni si sono visti convertire la pena in ergastolo.

Sono stati invece esclusi dalla grazia le persone che si sono macchiate di una serie di reati fra i quali: reati sessuali, rapina, violenza pubblica, possesso illegale di armi da fuoco, traffico di esseri umani e furto o vandalismo di infrastrutture elettriche e di telecomunicazioni. Non hanno potuto beneficiare dell’amnistia anche i carcerati che erano già stati liberati in passato grazia a misure simili, quelli condannati da tribunali dell’esercito e quelli che hanno all’attivo un tentativo di evasione.

Utile ricordare che l’amnistia arriva in un momento in cui lo Zimbabwe è a un passo dall’abbandonare la pena di morte in forma definitiva. La legge che sancisce la rimozione di questa pratica dall’ordinamento del paese è stata già approvata dal governo a febbraio e aspetta ora solo un ultimo, apparentemente scontato lascia passare del Parlamento, che l’ha già esaminata e avallata in prima istanza a novembre. I condannati a morte nel paese sono fra i 60 e 80 – a seconda delle fonti – e non è chiaro quanti di questi siano stati liberati per merito della grazia annunciata in questi giorni dal capo di stato.

Problema radicato 

Già a maggio Mnangagwa aveva promosso un’amnistia nell’ottica di migliorare le condizioni dei centri di detenzione. Secondo il World Prison Brief, un database del Birkbeck College dell’Università di Londra, il tasso di sovraffollamento dei carceri in Zimbabwe era pari al 131% con dati del 2022. Nelle prigioni del paese africano si trovavano infatti 21mila detenuti a fronte di una capienza complessiva di 17mila. Numeri comunque inferiori di quelli forniti da Moses Chihobvu, alla guida dell’agenzia statale che si occupa dei centri di detenzione. Il dirigente ha affermato infatti che «prima dell’amnistia c’erano 24mila reclusi; ora con 4mila in meno – ha aggiunto parlando dell’amnistia -, le strutture restano ancora piene».

Rispetto ai fattori all’origine di questa situazione, il criminologo locale Obert Muzembe, ascoltato dall’emittente pubblica statunitense Voa, ha puntato il dito anche contro l’alto tasso di inflazione che caratterizza l’economia del paese – e che la Banca centrale ha provato ad alleviare emettendo una nuova moneta, la sesta dal 2008 -: «È una dinamica che esercita pressione sulla società e molte persone vulnerabili finiscono per ricorrere a mezzi illegali per sopravvivere». Ne consegue la necessità di lavorare su più livelli, «educando la società», ha suggerito Muzembe , che a questo proposito a poi chiamato a un maggiore impegno le Chiese locali.

Oltre a essere sovrappopolati, gli istituti penitenziari dello Zimbabwe sono noti per le pessime condizioni igieniche e i trattamenti disumani. Famigerato da questo punto di vista è il carcere di massima di sicurezza Chikurubi nella capitale Harare, dove fino a quel mese fa era rinchiuso anche un oppositore politico di primo piano come Job Sikhala.

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Nigeria Politica e Società
Tunde Onakoya ha giocato per 60 ore consecutive a Times Square, New York, per raccogliere fondi per la sua associazione Chess in Slums Africa
Nigeria: nuovo Guinness World Record negli scacchi
22 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti
Credit: ICIR

È nigeriano il nuovo vincitore del nuovo Guinness World Record per la maratona di scacchi più lunga di sempre. Lo scorso venerdì, a New York, il maestro Tunde Onakoya ha raggiunto questo traguardo dopo aver ha giocato per ben 60 ore consecutive.

Il record precedente era stato stabilito nel 2018 da due scacchisti norvegesi, Hallvard Haug Flatebø e Sjur Ferkingstad, che avevano resistito per 56 ore e 9 minuti. 

Molti esponenti della comunità nigeriana presenti negli Stati Uniti, tra cui la star dell’Afrobeats Davido, si sono presentati a Times Square venerdì per sostenere Onakoya.

Sui social, nel frattempo, è esplosa una pioggia di congratulazioni e messaggi per celebrare la sua vittoria. Tra questi, non sono mancati gli interventi del presidente della Nigeria Bola Tinubu e del governatore dello Stato di Lagos, Babajide Sanwo-Olu. Su X, Sanwo-Olu ha ricordato come il record conquistato da Onakoya non abbia soltanto un valore sportivo, ma politico e sociale. 

“Portare su un palcoscenico mondiale la storia del lavoro fenomenale che hai iniziato a Lagos  è una potente testimonianza di come la grandezza possa emergere da qualsiasi luogo”, ha scritto su X. Il riferimento è all’associazione no-profit Chess in Slums Africa, di cui Onakoya è il fondatore e con la quale cerca di sostenere nell’educazione e nell’istruzione i ragazzi e le ragazze delle periferie più difficili, attraverso il gioco degli scacchi.

La notorietà che ha ottenuto con questo risultato gli ha permesso di raccogliere in pochi giorni di 100mila dollari. Con l’obiettivo però di raggiungere il milione. Con questi fondi, punta a poter regalare più scacchiere possibili e a finanziare insegnanti e scuole per portare avanti il suo progetto. 

Ma i successi non arrivano solo dal mondo degli scacchi: negli ultimi tempi, la febbre del record sembra aver colpito la Nigeria. Anche nelle discipline più stravaganti. Non solo obiettivi culturali, come nel caso di Onakoya o del professor John Obot, che lo scorso settembre ha ottenuto il Guinness World Record con la maratona per la più lunga lettura ad alta voce, andando avanti per 145 ore.  L’obiettivo, ha detto dopo la vittoria, è promuovere una maggiore diffusione della lettura tra i giovani nigeriani.

Pochi mesi fa, Hilda Baci è diventata la persona ad aver cucinato per più ore consecutive (100, ma registrate ufficialmente 23), mentre Tembu Ebere ha pianto ininterrottamente per sette giorni. 

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