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Altri Temi: Mozambico, meno soldi dalle banche a gas e petrolio, ma richiesta di gas aumenta
Africa Oggi podcast / Il Sudafrica in crisi in vista delle elezioni
28 Marzo 2024
Articolo di Luca Delponte
Tempo di lettura 1 minuti
Cyril Ramaphosa al Cremlino il 26 luglio 2018 (Credit: Presidenza della Federazione Russa/Wikimedia Commons/CC BY 4.0 DEED)
  • Ramaphosa, dopo sei anni di mandato consegna un Sudafrica in piena crisi – economica e di governance – e il 29 maggio si vota. Da Johannesburg, l’analisi di Efrem Tresoldi, già direttore di Nigrizia.
  • Mozambico, meno soldi dalle banche a gas e petrolio, ma richiesta di gas è in aumento. Di Gianni Ballarini

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Politica e Società Sudafrica
L'ANC non riesce a bloccare la candidatura dell'MK, il partito di fatto guidato dall'ex presidente
Il Sudafrica al voto e il déjà-vu Jacob Zuma
Redivivo, non potrebbe candidarsi secondo l'ordinamento sudafricano. Ma il caos che produce già orienta il dibattito
27 Marzo 2024
Articolo di Brando Ricci
Tempo di lettura 6 minuti
L'allora presidente Zuma a una riunione dei BRICS nel 2015. Foto dal sito della presidenza russa

Mancano due mesi alle prossime elezioni generali del Sudafrica, fissate per il 29 maggio, e l’ex presidente Jacob Zuma è di nuovo al centro del dibattito politico. Questo nonostante l’opposizione sperticata che gli sta muovendo contro il suo ormai ex partito, l’African National Congress (ANC) che guida il paese da 30 anni. E soprattutto nonostante l’ordinamento sudafricano gli impedisca piuttosto chiaramente di puntare alla presidenza come invece pare proprio che stia facendo.

Per capire cosa succede e cosa c’è in gioco occorre fare una serie di passi indietro. Si può partire dalla fine. Ieri la Corte elettorale sudafricana ha respinto la richiesta dell’ANC di bloccare la candidatura alle elezioni dell’uMkontho we Siwze (MK), un partito registrato lo scorso settembre e di cui Zuma è diventato alcuni mesi dopo il leader de facto. Secondo i giudici sudafricani, le procedure seguite dall’MK e dalla Commissione elettorale del Sudafrica per registrare le liste del movimento alle prossime elezioni sono legittime, a differenza di quanto sostenuto dalla forza al governo.

L’esito del verdetto è stato celebrato da sostenitori del partito dell’opposizione, radunati fuori dal tribunale di Johannesburg dove si è svolto il procedimento.  La portavoce dell’African National Congress, Mahlengi Bhengu-Motsiri, ha affermato che il suo partito rispetta la decisione dei magistrati e che non è contrario alla presenza dell’MK al voto, ma pretende comunque che vengano rispettate «la giustizia e la legalità». 

La svolta di dicembre 

Zuma, classe 1942, alla guida del paese per due mandati fra il 2009 e il 2018, si è aggiunto alle file dell’MK lo scorso dicembre, dopo aver reso noto a sorpresa di non voler sostenere l’ANC alla successiva tornata elettorale. L’ex presidente è stato poi formalmente espulso dal partito il mese successivo. I retroscena dietro la decisione di Zuma sono numerosi.

Basti sapere che il suo voltafaccia è l’ultimo di una serie di tensioni con l’attuale leadership del suo ex partito, il presidente Cyril Ramaphosa, già suo vice presidente. Il capo di stato gli è succeduto dopo che questo era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento in un gigantesco sistema di corruzione che per la sua capillarità si è guadagnato il nome di State Capture, traducibile come sequestro dello stato.

Ma il sostegno di Zuma all’MK porta con sé una storia ancora più lunga e articolata. uMkontho we Siwze, “lancia della nazione” in lingua xhosa, non è un nome nuovo nella storia sudafricana: si chiamava così il braccio paramilitare dell’ANC quando quest’ultimo era il principale promotore della lotta di liberazione contro l’apartheid. Il movimento è stato fondato dall’ex presidente Nelson Mandela e da altri compagni di lotta nel 1961, sulla scia di anni di violenze e abusi e soprattutto dello sdegno provocato dalla strage di Sharpeville. Con questo nome si ricorda l’uccisione di 69 manifestanti anti-apartheid, ammazzati dalla polizia durante una marcia il 21 marzo 1960.

Contesa sui simboli (o sul consenso?)

L’ANC ha fin da subito criticato la scelta di battezzare una nuova formazione politica con questo nome e ha più volte chiesto a chi guida il partito di cambiare dicitura. Si sono mostrati della stessa linea anche le maggiori associazioni di rappresentanza dei veterani dell’antico gruppo armato- nonostante alcuni ex membri del primo MK siano poi entrati nel nuovo partito – che hanno anche accusato Zuma e soci di manipolare la memoria del movimento per fini elettorali. L’ANC si è rivolto all’Alta corte di Durban per costringere l’MK a rinunciare a nome e logo della vecchia ala paramilitare sulla base di un’accusa di violazione di copyright.

L’inizio del processo è previsto per oggi 27 marzo. Secondo l’avvocato del partito di governo, Gavion Marriot, «nella mente dei sudafricani c’è un legame inscindibile fra l’ANC e l’uMkonto we Sizwe». Gli esponenti dell’MK sostengono invece che simbolo e logo non siano mai stati registrati formalmente e che la formazione che guida il paese abbia solo timore della minaccia rappresenta dal partito alle urne.

Paure che hanno trovato un primo riscontro nei dati. Una ricerca condotta a febbraio dal think-tank locale Social Research Foundation ha mostrato che l’MK potrebbe addirittura dimezzare il sostegno all’ANC nella provincia del KwaZulu-Natal, terra di origine di Zuma, tradizionale roccaforte dei suoi sostenitori nonché seconda provincia del paese per numero di elettori registrati.

Secondo questo sondaggio, basato su interviste a oltre 800 persone, la nuova formazione potrebbe addirittura finire per essere il secondo partito della regione, ottenendo il 24% dei voti contro il 25% del partito di governo, che in questa stessa area ha ottenuto il 54% dei consensi all’ultimo voto del 2019. Una dinamica in linea con quanto si riscontra in tutto il paese. Per la prima volta dal ritorno alla democrazia l’ANC rischia seriamente di scendere sotto il 50% dei consensi stando a diverse rilevazioni concordanti.

Strada sbarrata, almeno in teoria 

Calcoli prematuri però,  ma soprattutto inutili, per quanto riguarda il destino di Zuma. Almeno se si prende in considerazione quello che stabilisce l’ordinamento sudafricano. L’ex presidente, principale catalizzatore di consenso in un partito composto altrimenti da figure poco note, non potrebbe infatti neanche candidarsi. Principalmente per una ragione: l’ex leader infrange una delle condizioni per poter essere eletto all’Assemblea Nazionale in quanto ha subito una condanna a più di 12 mesi di prigione. L’ex capo di stato è stato infatti condannato a 15 mesi di carcere nel 2021 per non essersi presentato alle udienze della Commissione Zondo, l’ente da lui stesso istituito per far luce sul sistema di corruzione già citato, noto col nome di State Capture.

Per ora l’MK sembra ignorare queste disposizioni. Il nome di Zuma è il primo della lista dei candidati presentati dal partito a inizio mese. Il documento verrà approvata ufficialmente nei prossimi giorni, dopo che la Commissione elettorale avrà preso in esame le obiezioni che la cittadinanza ha il diritto di presentare fino a domani. La retorica degli esponenti del partito a riguardo è stata fino a oggi piuttosto aggressiva.

Il presidente ufficiale dell’MK Jabulani Khumalo, è stato lapidario: «Da oltre 20 anni i media stanno tentando di mettere Zuma in prigione, ma hanno fallito perché è un uomo semplice. Zuma sarà il presidente, che gli piaccia o no». E nei giorni scorsi esponenti del partito erano andati anche oltre, minacciando violenze nel caso in cui la Commissione elettorale avesse precluso la partecipazione al voto di maggio all’MK.

Il timore di violenze 

Minacce che vengono prese molto sul serio in Sudafrica. Nel 2021, l’arresto di Zuma fece da detonatore a giorni di violenze e saccheggi in cui morirono circa 300 persone. Le rivolte, va notato, si verificarono in un contesto anche esasperato dalla crisi socio-economica scatenata dalla pandemia di Covid-19.

Non è quindi ancora possibile capire se Zuma potrà o meno partecipare al voto. È lecito chiedersi che tipo di informazioni riceveranno in merito i cittadini sudafricani. Stando a un report del centro locale di monitoraggio dei social media Centre for Analytics and Behavioural Change (CABC), nelle ultime settimane profili riconducibili all’MK hanno diffuso notizie false o disinformazione su vari argomenti, e in modo particolare con l’obiettivo di screditare la Commissione elettorale.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Economia Sud Sudan Sudan
Juba sull’orlo dell’ennesima crisi, questa volta connessa al conflitto sudanese
La guerra in Sudan blocca l’export di petrolio dal Sud Sudan
Il danneggiamento di una stazione di pompaggio controllata dalle forze paramilitari ha quasi bloccato il flusso di greggio proveniente dal Sud Sudan e diretto all’hub commerciale di Port Sudan. Con importantissime conseguenze economiche per entrambi i paesi. Che per Juba significano anche un rischio di aumento dell’instabilità
27 Marzo 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 4 minuti

Doveva succedere. Era solo questione di tempo. Le operazioni militari in Sudan non potevano non avere un impatto anche sull’esportazione del petrolio sudsudanese e di conseguenza sulla già fragilissima economia del paese, che dal greggio ricava il 80% del Pil e il 98% del budget operativo dello stato.

Infatti la sola via di commercializzazione del minerale estratto nei campi petroliferi del Sud Sudan passa per il territorio sudanese, da un anno devastato da operazioni militari che hanno danneggiato infrastrutture chiave per l’economia del paese, e ora anche per quella del paese vicino.

Dal 10 febbraio il governo sudanese sapeva di non poter garantire l’esportazione del petrolio estratto in Sud Sudan dal suo terminal sul Mar Rosso, a Port Sudan. La situazione è stata resa pubblica alla metà di marzo con la formula giuridica di force majeure usata per evitare le penali previste per il mancato rispetto di impegni contrattuali.

Una lettera, datata 16 marzo, inviata alle controparti cinesi e malesi del contratto da Mohyeldin Naeem, facente funzione di ministro dell’Energia e del Petrolio del governo sudanese, e riassunta in un articolo di Radio Dabanga, dice che “a causa di operazioni militari nella zona, una stazione di pompaggio operata dalla compagnia statale Bashayer Pipeline Company (BAPCO) aveva finito il carburante, causando l’ostruzione del condotto per l’addensarsi del minerale” (il petrolio sudsudanese deve essere riscaldato per diventare abbastanza fluido da poter scorrere facilmente nei tubi dell’oleodotto, ndr) e che l’impianto ne era stato gravemente danneggiato.

Secondo il Sudan War Monitoring, un notiziario online specializzato nel confermare le notizie dai campi di battaglia attraverso strumenti informatici, l’incidente si sarebbe verificato in territorio controllato dalle Forze di supporto rapido (RSF) in una zona dello stato del Nilo Bianco vicina alla linea del fronte, che la separa dal territorio controllato dall’esercito governativo (SAF).

Il team di specialisti inviati nella zona per riparare il danno aveva prima dovuto garantirsi sicurezza contrattando la propria presenza con le forze belligeranti. La mancanza di comunicazione aveva complicato ulteriormente la situazione. Ma, anche a danno riparato, la stazione di pompaggio potrà riprendere a funzionare solo quando potrà disporre di carburante, non si può prevedere quando.

Con la rottura dell’oleodotto, il settore petrolifero si è quasi bloccato in entrambi i paesi, con importantissime conseguenze economiche sia in Sudan, che dal passaggio del greggio ricava ricche royalty, che in Sud Sudan dove i proventi della sua commercializzazione sono linfa vitale per il budget statale.

Rimane attivo un braccio dell’infrastruttura che però trasporta al massimo il 25% del greggio complessivamente prodotto.

Oleodotti dal Sud Sudan al Sudan (Fonte: S&P Platts, ministero del Petrolio del Sud Sudan)

Il conflitto in Sudan aveva già causato una riduzione dell’estrazione dai campi petroliferi sudsudanesi, che si era attestata sui 140mila barili per giorno di media nel 2023. Nel 2022 era stata di 160mila, in ogni caso ben lontana dai 350mila barili prodotti giornalmente prima della guerra civile scoppiata in Sud Sudan nel 2013 e conclusasi cinque anni dopo.

La drastica riduzione dei proventi del petrolio potrebbe aumentare l’instabilità del paese, mai davvero pacificato anche dopo la fine della guerra civile. Lo dicono diversi analisti osservando che una parte significativa di questi proventi sono sempre serviti per finanziare “progetti speciali” controllati direttamente dall’ufficio del presidente, Salva Kiir, accusato anche di corruzione e di appropriazione indebita.

Insomma, invece che entrare nel bilancio statale, una notevole parte dei proventi del petrolio sarebbero serviti per finanziare progetti privati di cordate di sostenitori, politici, amici e familiari del presidente e della leadership del paese che ora si vedrebbero tagliati i fondi.

Questo potrebbe portare al diffondersi di un malcontento che potrebbe sfociare in proteste, magari mascherate da azioni per sottolineare i gravi e numerosi problemi del paese.

Edmund Yakani, autorevole esponente della società civile sudsudanese, osserva che la drastica diminuzione dei proventi del petrolio porterebbe anche alla svalutazione della già debole valuta del paese, con un conseguente aumento della povertà, che è già fin troppo diffusa. Questo aumenterebbe l’impatto della microcriminalità e forzerebbe parecchi ad imbracciare le armi per procacciarsi i mezzi di sussistenza in modi illegali.

Le sue parole sintetizzano in modo preciso i timori sul futuro del Sud Sudan: «Con il peggioramento dell’economia, aumenterebbe l’instabilità politica e collasserebbe la legalità. Questo potrebbe portare ad un’impennata dei crimini e delle violazioni dei diritti umani».

Secondo queste analisi, il conflitto in Sudan finirebbe dunque per costituire una diretta aggravante della già grave instabilità del Sud Sudan.

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Armi, Conflitti e Terrorismo Migrazioni Politica e Società Tunisia
Il leader della sinistra tunisina, storico oppositore di Ennahda, era stato assassinato nel 2013
Tunisia: condanna a morte di quattro militanti di Daesh per l’uccisione di Chokri Belaid
Erano in 23 sotto processo: 5 gli assolti. Il presidente Saied aveva criticato la lentezza della giustizia sul caso. Nel frattempo il suo regime continua ad arrestare oppositori. Dal 19 marzo non si hanno notizie di un giovane leader studentesco, tra gli accusatori del governo per la violenza indiscriminata nei confronti dei migranti subsahariani
27 Marzo 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

Era il leader, da sinistra, dell’opposizione in Tunisia. Chokri Belaid, fondatore del movimento dei Patrioti democratici, era il più critico avversario dell’allora partito al governo Ennahda. Fu ucciso da tre proiettili fuori dalla sua casa il 6 febbraio del 2013. Aveva 48 anni.

Moratoria sulle condanne a morte

Ieri, in base a quanto riferito dal sostituto procuratore della divisione giudiziaria antiterrorismo ai cronisti, è arrivata la sentenza contro gli autori dell’assassinio e dei loro fiancheggiatori. Erano sotto processo ventitré esponenti legati allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh). Quattro di loro sono stati condannati a morte, altri due all’ergastolo, cinque assolti e ai restanti sono state comminate pene da due a 120 anni.

La Tunisia emette ancora condanne a morte, spesso in casi di terrorismo, nonostante una moratoria di fatto entrata in vigore nel 1991. Da allora nel paese nessuna persona è stata giustiziata. Ma l’attuale presidente Kais Saied non ha mai nascosto di esserne favorevole.

Assassinio anche di Brahmi

I terroristi fedeli a Daesh rivendicarono l’assassinio di Belaid così come quello, sei dopo, di Mohamed Brahmi, altra figura dell’opposizione di sinistra.

Le autorità hanno affermato, nel 2014, che Kamel Gadhgadhi, il principale autore dell’omicidio di Belaid, era stato ucciso in un’operazione antiterrorismo.

Belaid e Brahmi erano entrambi strenui critici di Ennahda, il partito che ha dominato la politica tunisina con la maggioranza parlamentare per un decennio dopo la rivolta tunisina del 2011.

L’influenza politica del partito è stata interrotta nel luglio 2021, quando è subentrato il presidente Kais Saied. Che nel febbraio del 2022 aveva colto l’occasione delle lentezze della giustizia tunisina sul caso Belaid per sciogliere il Consiglio superiore della magistratura, organo indipendente preposto alla nomina dei giudici, accusandolo di essere parziale e al servizio di determinati interessi.

Saied e il suo governo che in questi anni si sono resi attori attivi di molti arresti di oppositori politici.

La scomparsa di Christian Kwongang

Da ultimo desta preoccupazione la scomparsa dal 19 marzo di Christian Kwongang, studente camerunense di un’università privata a Tunisi, ex presidente dell’Associazione degli studenti e tirocinanti africani. La denuncia arriva dalla stessa Associazione, che teme l’ennesimo arresto arbitrario del regime.

Kwongang si sta battendo contro gli arresti e l’indiscriminata violenza anti-migranti subsahariani scoppiata nel paese soprattutto nel 2023 e in questi primi mesi del 2024.

I parenti dello studente hanno raccontato che si era recato in una stazione di polizia nel centro della capitale. Voleva recuperare il permesso di soggiorno. Da allora non ha più dato alcun segno di vita.

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Politica e Società Sud Sudan
I partiti minori denunciano un piano del governo per escluderli dal voto previsto a dicembre
Sud Sudan: 50mila dollari per candidarsi. Insorgono le opposizioni
27 Marzo 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Il presidente sudsudanese Salva Kiir nel gennaio 2011 (Credit: Al Jazeera/CC BY-SA 2.0 DEED)

Il Sud Sudan dovrebbe tenere a dicembre le sue prime elezioni dall’indipendenza dal Sudan, ottenuta nel luglio 2011. Ma il percorso ogni mese si fa più accidentato e aspro, con tensioni interne mai sopite che riemergono con crescente forza.

È il caso della nuova legge elettorale, contro cui si sono schierati tutti i partiti minori di opposizione denunciando un piano del governo per escluderli dal voto.

Il regolamento prevede infatti il versamento di una tassa di registrazione di 50mila dollari da parte delle formazioni politiche che intendono presentare un loro candidato.

Nel 2010, quando si votò per la prima volta nell’allora Sud Sudan semi-indipendente, la tassa era di soli 150 dollari. E l’attuale capo dello stato Salva Kiir, leader del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM), divenne presidente con il bulgaro consenso di quasi il 93%.

I successivi cinque anni di guerra civile, conclusa nel settembre 2018, impedirono che i sudsudanesi potessero tornare alle urne, mantenendo al potere un’élite militarizzata, cleptocratica e corrotta che ha ridotto il paese sul lastrico.

Le stime più recenti dell’Ufficio ONU per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) descrivono un paese in cui la maggior parte della popolazione vive in grave povertà e circa l’80% vive al di sotto della soglia di povertà assoluta. Con 8,9 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria.

Un quadro che fa ben comprendere perché la Coalizione dei partiti di opposizione abbia contestato l’esorbitante imposta di registrazione, chiedendone la revoca al Consiglio dei partiti politici del Sud Sudan.

Le stesse opposizioni denunciano inoltre il controllo del sistema giudiziario da parte del SPLM. Cosa che, evidentemente, garantirebbe il rigetto di eventuali contestazioni sull’esito del voto.

Ma non è questa l’unica questione che sta mettendo in allarme gli osservatori.

Il primo vicepresidente Riek Machar, leader del Movimento di liberazione del popolo sudanese in opposizione (SPLM-IO), afferma che il suo partito non parteciperà alle elezioni finché tutti i capitoli pendenti dell’accordo di pace non saranno pienamente attuati.

E non sono questioni secondarie, visto che riguardano tra l’altro il censimento della popolazione, il rientro di circa 2,3 milioni di rifugiati all’estero, la stesura di una nuova Costituzione e la completa unificazione delle forze armate, compresi i gruppi armati non firmatari dell’accordo di pace. Ma anche il reperimento del denaro necessario per metter in moto l’intera macchina elettorale.

In realtà appare chiaro che nessuno dei due principali partiti è favorevole allo svolgimento delle elezioni nei tempi previsti. Con l’SPLM-IO che ha chiesto un nuovo rinvio del voto e l’SPLM che propone invece elezioni parziali a dicembre, presidenziali e governative, con il rinvio delle legislative.

Insomma, discussioni e tensioni simili a quelle che hanno portato alla proroga delle elezioni già nel 2015, 2018 e 2022. E che rischiano di riaccendere il conflitto tra le due fazioni etnico-politico-militari che da oltre un decennio vampirizzano il paese.

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