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L'editoriale di aprile 2024
Genocidio, un “mai più” svuotato dalla storia
29 Marzo 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 4 minuti

“Mai più” è una frase che torna con frequenza nella storia. Spesso, quando si sente l’urgenza di pronunciarla è già troppo tardi.

Sono passati 30 anni dal genocidio che nel 1994 ha dilaniato il Rwanda e l’idea che lo sterminio di un’intera popolazione possa essere impiegato come una qualsiasi altra strategia di guerra non è uscita dall’orizzonte delle cose possibili. Anzi, è tornata a essere materia dell’attualità battente.

“Mai più”, quindi, è di nuovo lettera morta. Nonostante il monito funga da aspirazione fondamentale della Convenzione per la prevenzione e la punizione del genocidio che le Nazioni Unite hanno adottato nel 1948, in un mondo ancora scosso dalla terrificante “soluzione finale” che i nazisti avevano scatenato contro i cittadini ebrei, rom e sinti dell’Europa. Sconvolto e quindi determinato a evitare che qualcosa del genere potesse ripetersi. Così non è stato.

Quella definizione terribile – etimologicamente l’omicidio di un’intera comunità; giuridicamente atti commessi al fine di «distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale» – doveva rimanere solo un monito ed è invece diventata una realtà con cui fare i conti con i nuovi strumenti di cui la comunità internazionale si era nel frattempo dotata.

Prima in Rwanda, appunto, quando estremisti hutu uccisero centinaia di migliaia di cittadini tutsi e hutu moderati nel 1994. E poi, l’anno dopo, nei Balcani, quando le truppe serbe ammazzarono 8mila cittadini bosniaci musulmani a Srebrenica.

Una perdita incommensurabile di vite umane, eppure l’avvertimento “mai più” non è riuscito a diventare parte del nostro Dna. Oggi non è un dato silenziosamente e consapevolmente acquisito, ma riemerge dalle nostre bocche come un grido di fronte a una realtà che di fatto lo ignora. Lo si vede nella striscia di Gaza annichilita da sei mesi di guerra condotta dall’esercito israeliano.

Il Sudafrica ha denunciato il governo del premier Netanyahu per genocidio presso la Corte internazionale di giustizia dell’Onu con sede all’Aia. Il 26 gennaio, la Corte ha chiesto a Israele di fare tutto il possibile per «prevenire possibili atti genocidari». Ci vorrà molto tempo, comunque, per arrivare a una sentenza che decida se in atto o meno un genocidio.

Ma l’eliminazione dell’altro, simbolicamente, nasce ancora prima di quella che vediamo sui campi di battaglia. In altre aree del pianeta, infatti, lontano dagli occhi della comunità internazionale, non sappiamo neanche che contorni prendano, le violenze terribili che si stanno verificando.

È il caso del Sudan, dove da un anno i due “padri-padroni” del paese, i generali al-Burhan e Hemeti, si contendono il potere a colpi di guerra civile. E a forza di omicidi di massa, come quelli che stanno avvenendo in Darfur, dove le popolazioni non arabe, soprattutto i masalit, denunciano, appunto, un genocidio, 20 anni dopo l’ultima volta.

Ai morti del Sudan, però, pensano in pochi. Non c’è tempo, non c’è attenzione a sufficienza per stare su più crisi in una volta. Nasce un sospetto: forse le potenzialità di un genocidio non vanno cercate tanto più in là della mente di chi crede davvero che vi siano esseri umani di serie A e di serie B. Consapevoli di questo, non torneremo più a chiederci, in futuro, perché una cosa tanto assurda e tanto violenta non è successa “mai più”.


Sudan

Dal 15 aprile 2023 è in corso una guerra tra le forze armate sudanesi guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di supporto rapido (Rsf), i paramilitari che rispondono agli ordini del generale Mohammed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemeti.

Secondo l’ong Armed conflict location and event data project (Acled), a fine gennaio lo scontro ha provocato la morte di più di 13mila persone. Ma sono stime prudenti. Oltre 9 milioni gli sfollati e i rifugiati.

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Ambiente Economia Politica e Società
Studio della ong britannica Raid e della congolese Afrewatch
Rd Congo: aumento degli aborti e calo dei rendimenti agricoli a causa del cobalto
Le cause sono i rilasci tossici nell’aria e nei corsi d’acqua. I ricercatori dell'Università di Lubumbashi hanno analizzato campioni di 5 fiumi vicino alle miniere, scoprendo che sono iperacidi o molto acidi. Le politiche legate alla transizione ecologica cominciano a presentare il conto al paese principale produttore del minerale
29 Marzo 2024
Articolo di redazione
Tempo di lettura 4 minuti

Prima produttrice mondiale di cobalto e terza di rame, la Repubblica democratica del Congo è al centro delle politiche di transizione energetica legate, in particolare, alla produzione di batterie per numerosi articoli domestici, compresi i veicoli elettrici. Ma le ripercussioni per le popolazioni locali di questa corsa alle energie verdi sono molto negative. A causa, soprattutto, dei rilasci tossici nell’aria e nei corsi d’acqua.

Agricoltori e donne tra le principali vittime

Queste conclusioni sono il frutto di uno studio durato 19 mesi e condotto in 25 città e paesi vicini a 5 delle più grandi miniere di cobalto e rame congolesi. Ricerca pubblicata il 27 marzo e intitolata Beneath the Green: A critical look at the cost of industrial cobalt Extraction in RDC.

Sponsorizzato dall’organizzazione britannica Rights & Accountability in Development (Raid) e dalla ong African Resources Watch (Afrewatch), con sede a Kinshasa, lo studio è stato condotto da scienziati del dipartimento di tossicologia e ambiente dell’Università di Lubumbashi. Hanno analizzato campioni di diversi fiumi vicino alle miniere, rivelando in particolare che i fiumi Katapula e Kalenge sono “iperacidi”, mentre i fiumi Dipeta e Dilala sono “molto acidi”. Quattro fiumi sono quindi tossici per la salute umana e animale, in particolare per quella dei pesci.

Utilizzo di cobalto e rame

Il cobalto è un minerale fondamentale per la transizione energetica verde. È utilizzato nelle batterie ricaricabili dei veicoli elettrici e si trova principalmente in Rd Congo, che detiene circa il 70% delle riserve mondiali, si legge nell’introduzione della ricerca. Viene estratto come sottoprodotto del rame, un altro minerale fondamentale. L’88% del cobalto dell’Rd Congo è prodotto da miniere industriali gestite da alcune delle più grandi società minerarie del mondo; il restante 12% proviene da minatori artigianali.

Su un campione di 144 residenti intervistati, quasi tutti (il 99%) hanno deplorato il calo dei rendimenti agricoli e le ridimensioni delle aziende agricole a causa dell’inquinamento, con conseguente riduzione del reddito della popolazione. Il 59% di loro ha inoltre dovuto ridurre la propria dieta a un pasto al giorno e ha ritirato i propri figli da scuola per mancanza di denaro. E il 75% dichiara di non avere più mezzi sufficienti per accedere alle cure sanitarie o acquistare medicinali. Le persone intervistate collegano questo peggioramento delle loro condizioni di vita al boom dell’estrazione del cobalto.

Aumento degli aborti

Ma un dato ancora più clamoroso riguarda le donne e le ragazze che vivono nelle comunità minerarie: è segnalato un aumento «sconcertante» di gravi problemi di salute riproduttiva, inclusi aborti e difetti congeniti.

Le donne e le ragazze intervistate hanno riferito di aver avuto mestruazioni irregolari, infezioni urogenitali, micosi vaginali e verruche.

«Un pediatra, che dal 2016 registra i dati dei pazienti, ha spiegato che sono esplosi i tassi di infezioni genitali e patologie cutanee», si legge nella ricerca. A suo avvio ciò dipende dal fatto che queste popolazioni sono le principali utilizzatrici di «acqua impura, il che le rende particolarmente vulnerabili alle malattie».

Più della metà degli intervistati (56%) ha espresso preoccupazione per la propria salute riproduttiva o quella dei membri della famiglia.

Sfruttamento intensivo

La quota di sfruttamento globale dell’Rd Congo ha continuato ad aumentare negli ultimi anni, così come le esportazioni congolesi, che hanno raggiunto il picco di 140mila tonnellate nel 2023, secondo le statistiche ufficiali. Un esempio sono le riserve di cobalto della cintura di rame del Katanga, che ammontano a circa 5 milioni di tonnellate, rendendola il più grande giacimento al mondo.

Questa crescita è guidata dalla crescente domanda globale del minerale.

«Il mondo ha bisogno del cobalto congolese per raggiungere gli obiettivi delle emissioni nette zero. Ma la transizione energetica non va a beneficio delle centinaia di migliaia di congolesi che vivono all’ombra delle grandi miniere industriali di cobalto. Non guidano veicoli elettrici e non beneficiano di un ambiente sano», la denuncia di Emmanuel Umpula, direttore esecutivo di Afrewatch.

Impegno insufficiente delle compagnie minerarie

Non sono recenti le accuse di inquinamento ambientale contro le miniere di rame e cobalto. Numerosi studi e rapporti hanno più volte sottolineato la responsabilità delle compagnie minerarie per la persistenza del problema. Ma loro hanno sempre assicurato il rispetto delle norme ambientali in vigore nel paese africano e ritengono, in particolare, che gran parte della responsabilità della situazione cada sulle vecchie miniere e l’estrazione artigianale.

In queste condizioni spetta alle autorità individuare meglio le responsabilità per poi poter sanzionare chi inquina. In un rapporto pubblicato nel 2013, l’organizzazione belga International Peace Information Service (Ipis) aveva già messo in guardia sulla responsabilità dello stato, sottolineando che gli abusi societari si perpetuano a causa della mancata applicazione della legge da parte dello stato congolese.

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Ambiente Economia Kenya Politica e Società
Il dato, impressionante, è contenuto nell'ultimo report sul tema delle Nazioni Unite
Un quinto di tutto il cibo del mondo va sprecato
Nel 2022 sono state buttate più di un miliardo di tonnellata di alimenti
29 Marzo 2024
Articolo di Redazione
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Un quinto di tutto il cibo prodotto nel mondo viene sprecato. A calcolarlo è il secondo rapporto sul cibo dell’UNEP (il Programma ambientale delle Nazioni Unite) relativo allo spreco di alimenti sul pianeta, che è stato pubblicato in questi giorni ma che fa riferimento ai dati relativi al 2022.

Il documento è stato presentato anche a Nairobi in vista della giornata mondiale dello “Zero Spreco” indetta dall’Onu, che si celebra ogni anno il 30 marzo. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno calcolato che oggi 783 milioni di persone in tutto il mondo vivono in condizioni di sottoalimentazione cronica, 150 milioni di bambini soffrono la fame e molti paesi, soprattutto in Africa, si trovano ad affrontare crisi alimentari sempre più gravi.

Oltre al protrarsi del conflitto russo-ucraino, nuove crisi come la guerra tra Israele e Hamas e la violenza ad Haiti stanno peggiorando la crisi a livello globale.

Gli autori della ricerca affermano che la carestia, già così grave in gran parte dell’Africa in seguito all’estendersi di condizioni di perdurante siccità, è imminente anche nel nord di Gaza e si va propagando ad Haiti.

Ebbene il mondo – dice il rapporto UNEP, che ha il compito di tracciare i progressi compiuti dai paesi entro il 2030 nel dimezzare gli sprechi alimentari – ha appunto sprecato nel 2022 a livello globale circa il 19% del cibo prodotto, ovvero circa 1,05 miliardi di tonnellate, equivalenti a 132 kg per persona e a un quinto di tutto il cibo disponibile ai consumatori. Il primo rapporto, nel 2021, in riferimento al 2019 stimava che lo spreco di cibo era stato del 17% a livello globale, ovvero 931 milioni di tonnellate (1,03 miliardi di tonnellate). La situazione pertanto non ha fatto che aggravarsi.

Il rapporto è stato redatto in collaborazione tra l’UNEP e lo Waste and Resources Action Program (WRAP), un ente inglese di beneficenza internazionale. I ricercatori hanno analizzato i dati nazionali su famiglie, servizi di ristorazione e rivenditori. Hanno scoperto che ogni persona spreca circa 79 chilogrammi di cibo all’anno, pari ad almeno 1 miliardo di pasti sprecati ogni giorno in tutto il mondo. La maggior parte dei rifiuti – il 60% – viene prodotto dalle famiglie; il 28% circa deriva dai servizi di ristorazione, dai ristoranti e dalle mense, mentre circa il 12% è prodotto dai rivenditori.

Lo spreco alimentare, peraltro, rappresenta anche una preoccupazione globale per i costi di produzione che implica, compresi la terra e l’acqua necessari per allevare colture e animali, e le emissioni di gas serra che produce, compreso il metano, un gas potente che – come noto – ha contribuito per circa il 30% al riscaldamento globale. Si calcola che le perdite e gli sprechi alimentari generino dall’8 al 10% delle emissioni globali di gas serra.

Un fenomeno che aggrava l’insicurezza alimentare 

Fadila Jumare, una collaboratrice dell’UNEP di base in Nigeria, esperta del Busara Center for Behavioral Economics, ha studiato in particolare la possibilità di prevenzione dello spreco alimentare nel paese in cui vive e in Kenya. Secondo Jumare, il problema aggrava le condizioni di molte persone che già soffrono di insicurezza alimentare e non possono permettersi diete sane. «A livello globale – ha sostenuto l’esperta – lo spreco alimentare significa che meno cibo è disponibile per la popolazione più povera».

Brian Roe, ricercatore sullo spreco alimentare presso la Ohio State University, non direttamente coinvolto nel rapporto, ha commentato: «Dal documento si può concludere che l’impegno nel ridurre la quantità di cibo sprecato può portare a molti risultati desiderabili: conservazione delle risorse, minori danni ambientali, maggiore sicurezza alimentare e più terreni per usi diversi dalle discariche e dalla produzione alimentare».

Gli autori del report sostengono che dovrebbe spettare alle nazioni più ricche guidare la cooperazione internazionale e lo sviluppo di politiche per ridurre gli sprechi alimentari. Molti governi, gruppi regionali e industriali, in ogni caso, stanno utilizzando partenariati pubblico-privati per ridurre gli sprechi alimentari, mitigando lo stress climatico e idrico. Vari governi e amministrazioni locali collaborano con le imprese della filiera alimentare, assicurandosi che le aziende monitorino e quantifichino gli sprechi alimentari.

C’è speranza…

Il rapporto afferma infine che esiste oggi una positiva ridistribuzione alimentare – inclusa la donazione delle eccedenze alimentari alle banche alimentari e agli enti di beneficenza – e che questa tendenza rappresenta un passo significativo nella lotta allo spreco alimentare.

Un esempio virtuoso lo offre in Kenya il gruppo Food Banking Kenya, un’organizzazione no-profit che ottiene il cibo in eccedenza da fattorie, mercati, supermercati e centri di imballaggio e lo ridistribuisce agli scolari e alle popolazioni vulnerabili. Anche in questo paese, infatti, lo spreco alimentare costituisce una crescente preoccupazione, dato che secondo le stime ogni anno vengono sprecate circa 4,9 milioni di tonnellate di cibo.

John Gathungu, cofondatore e direttore esecutivo del gruppo ha dichiarato: «Abbiamo creato un impatto positivo sulla società, fornendo cibo nutriente, e abbiamo ottenuto anche un impatto positivo sull’ambiente riducendo le emissioni di gas nocivi».

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Migrazioni Podcast Politica e Società Salute
Ep. 4 - Salute mentale e (dis)integrazione
Podcast / Oltre l’approdo. Storie di (dis)integrazione
Qual è l'impatto delle difficoltà dell''integrazione' sulla salute mentale? Ce lo raccontano il dottor John Kossi e la dottoressa Dimitra Tsekou
29 Marzo 2024
Articolo di Arianna Baldi, Youssef Moukrim
Tempo di lettura 1 minuti

In questa quarta puntata, dedicata alla salute mentale, si esplorano le complesse dinamiche psicologiche legate all’esperienza migratoria. Attraverso gli approfondimenti dello psicologo transculturale John Kossi e della psicoterapeuta Dimitra Tsekou, appare chiaro come a pesare sulla salute mentale delle persone non sono soltanto i traumi pregressi, accumulati nel paese d’origine o lungo le rotte,  ma anche le fatiche legate al vissuto sul territorio italiano. Si evidenzia l’importanza di approcci terapeutici sensibili alle diversità culturali e alle esperienze migratorie, rompendo gli schemi occidentali dominanti nella cura della salute mentale.

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Politica e Società Salute Uganda
L’obesità tra la popolazione è salita dal 17 al 26% negli ultimi 17 anni. Il governo corre ai ripari
Uganda: esercizio fisico obbligatorio per i dipendenti pubblici
29 Marzo 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 2 minuti

Il governo dell’Uganda ha dato avvio ad una campagna riguardante tutti i dipendenti pubblici, finalizzata a “ridurre tra i funzionari il crescente peso delle malattie legate allo stile di vita”.

D’ora in poi tutti dovranno prendere parte settimanalmente a una sessione di esercizio fisico di due ore per favorire un migliore stato di salute.

La responsabile del servizio pubblico del paese, Lucy Nakyobe, ha ordinato ai leader delle istituzioni statali di porre in atto la direttiva con effetto immediato.

La misura giunge dopo che le autorità hanno pubblicato un sondaggio demografico e sanitario che indicava che negli ultimi 17 anni si è verificato un aumento dell’obesità nel paese dal 17% al 26%.

Gli esperti medici affermano che la mancanza di esercizio fisico e le cattive abitudini alimentari potrebbero aggravare le condizioni di obesità, aumentando il rischio del moltiplicarsi di malattie cardiache, ipertensione, diabete e ictus legate allo stile di vita.

Sui social media l’iniziativa è stata accolta con favore dagli utenti che chiedono giorni liberi per i dipendenti pubblici per poter conformarsi alla direttiva.

Il mese scorso, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) aveva affermato che in Uganda il 24% delle donne e il 9% degli uomini di età compresa tra i 15 e i 49 anni sono affetti da sovrappeso o obesità.

“La prevalenza dell’ipertensione e del diabete tra gli adulti in Uganda – scrive l’OMS – sta gradualmente aumentando, con le donne che hanno una prevalenza maggiore del 27,7% rispetto a quella del 4,7% degli uomini”.

L’agenzia sottolinea inoltre che le malattie cardiache, il diabete e i disturbi respiratori contribuiscono al 33% dei decessi in Uganda.

La prevalenza dell’obesità in Uganda è comunque inferiore alla media regionale che è del 20,8% per le donne e del 9,2% per gli uomini.

Già nel 2009 l’allora segretario permanente della magistratura, Pius Bigirimana, aveva introdotto sessioni settimanali di esercizio fisico tra giudici, magistrati e altri membri del personale giudiziario.

Il presidente Yoweri Museveni ha regolarmente mostrato la sua passione per l’esercizio fisico. Sulla scia del Covid-19, Museveni (79 anni) aveva pubblicato sui social media video di sé stesso e dei funzionari del suo regime in allenamento, per incoraggiare le persone a mantenersi in forma durante il lockdown.

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