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AFRICA Ambiente Armi, Conflitti e Terrorismo Economia Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società
Secondo l'ultimo report della ong, il continente soffre delle conseguenze di conflitti, crisi climatica e aumento prezzo del cibo
Amnesty International: sui diritti umani siamo in regressione, in Africa subsahariana e non solo
Ci sono alcune buone notizie ma lo scenario è complesso. A partire dalla guerra in Sudan
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 5 minuti

La rimozione di un divieto alle attività politiche per le opposizioni in Tanzania; l’inizio di un programma per l’istruzione gratuita in Zambia, con l’assunzione di nuovi 4.500 insegnanti; vari disegni di legge, anche prossimi all’approvazione, che puntano a contrastare la violenza e le discriminazioni di genere in Sudafrica, Sierra Leone e Repubblica democratica del Congo. Nell’ultimo report annuale sullo stato dei diritti umani nel mondo pubblicato da Amnesty International ci sono alcune buone notizie che arrivano dall’Africa subsahariana.

Certo, nel complesso lo scenario del continente è ancora segnato da pesanti violazioni e abusi. E dalla compresenza e congiuntura di conflitti, crisi climatica, compressione dello stato di diritto come risposta alle mobilitazioni popolari.

In regressione 

Necessario però, collocare la situazione dell’Africa nel più ampio contesto globale, che non è meno difficoltoso. Secondo Amnesty, ong per la tutela dei diritti umani nata in Gran Bretagna nel 1961 e che a oggi conta 10 milioni di attivisti in tutto il mondo, il nostro pianeta si è imbarcato su una pericolosa macchina del tempo: a detta dell’organizzazione, che rilancia un dato calcolato dal del V-dem Institute, un ente di ricerca di base in Svezia che studia le performance dei governi, il numero di persone che vive in democrazia è diminuito fino ad arrivare alla stessa cifra del 1985. Cinque anni prima della caduta del Muro di Berlino e della fine della Guerra Fredda, nove anni prima della liberazione di Nelson Mandela e dell’ultimo anno del regime di apartheid in Sudafrica, solo per citare due eventi storici dalla grande portata.

Si torna più indietro ancora, a prima della pubblicazione della Convenzione sul genocidio del 1948, se si guarda a cosa sta avvenendo in alcuni dei principali fronti di conflitto presenti nel mondo. L’imperativo “mai più” che ha spinto la comunità internazionale a reagire agli orrori della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto è stato «distrutto in mille pezzi» in Israele e a Gaza e in Ucraina, ma anche in Myanmar e in Cina, dove prosegue la persecuzione ai danni della minoranza uigura.

Anche quelli che potrebbero essere strumenti di progresso, forse in grado di accompagnare il mondo fuori da questa spirale regressiva, diventano invece mezzi utili a perpetuare razzismo, diffondere disinformazione e reprimere la libertà di espressione. Il grande sviluppo tecnologico, afferma Amnesty, non sta aiutando il mondo a evolvere insomma, e le prospettive di crescita e diffusione nell’uso dell’intelligenza artificiale sono motivo di preoccupazione.

Il dramma sudanese

Tornando all’Africa, la guerra in Sudan è al momento la crisi che provoca maggiore inquietudine. Il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023 fra l’esercito regolare al servizio del presidente de facto Abdelfattah al-Burhan e le milizie agli ordini del vice presidente Mohamed Hamdan Dagalo, «illustra l’immensa sofferenza dei civili coinvolti nei conflitti armati in tutta la regione e il totale disprezzo da parte delle parti in conflitto per il diritto internazionale umanitario». Almeno 12mila, riporta Amnesty, le vittime civili del conflitto.

Le parti belligeranti in Sudan stanno commettendo anche violenze sessuali. Questo tragico elemento torna in diversi scenari di conflitto del continente e in modo particolare in Repubblica democratica del Congo, dove nella sola provincia nord-orientale del Nord Kivu e nei soli primi tre mesi dell’anno scorso sono state registrati 38.000 casi di violenza sessuale, stando a dati Unicef rilanciati nel report.

Oltre alle guerre, in Africa continuano a registrarsi fasi di violenta repressione del dissenso. «In molti casi – si legge nel testo – le forze di sicurezza hanno disperso le proteste utilizzando una forza eccessiva; decine di manifestanti e passanti sono stati uccisi e feriti, anche in Angola, Etiopia, Kenya, Mali, Mozambico, Senegal e Somalia».

Diritto al cibo, diritto mancato 

Un altro dei problemi che emerge dal report di Amnesty è il mancato diritto al cibo. «Molti paesi africani – denuncia l’ong – sono stati tra i più colpiti al mondo dall’elevata inflazione dei prezzi alimentari. Il numero di persone che soffrono di insicurezza alimentare ha raggiunto proporzioni sconcertanti. Il Programma alimentare mondiale ha stimato che a febbraio il 78% della popolazione della Sierra Leone soffriva di insicurezza alimentare e il 20% delle famiglie soffriva di grave insicurezza alimentare. A dicembre, l’Ocha ha affermato che 5,83 milioni di persone (46%) della popolazione del Sud Sudan vivevano livelli elevati di insicurezza alimentare. In Namibia, l’insicurezza alimentare acuta è aumentata drasticamente, colpendo il 22% della popolazione».

Questo problema è a sua volta aggravato dai cambiamenti climatici e dai conflitti, in una dinamica di moltiplicazione dei fronti di criticità che si registra in molte regioni del continente. Ripercuotendosi, a esempio, anche sul godimento del diritto allo studio. Questo, afferma Amnesty, «è stato negato o gravemente ostacolato nei paesi colpiti da conflitti, in particolare in Burkina Faso, Camerun, RD Congo e Niger».

Le guerre lasciano poi ferite che vanno rimarginate e vittime che meritano giustizia. Ma anche su questo fronte sono stati osservati dei passi indietro. I governi di diversi paesi, fra i quali l’Etiopia, stanno di fatto abbandonando od ostacolando processi per la verità e la riparazione a seguito di conflitti e violazioni dei diritti umani. Fra le note positive in questo senso, l’arresto di quattro uomini accusati di crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità in Repubblica Centrafricana.

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Economia Etiopia Kenya Politica e Società Somalia
Africa orientale / Tensioni Somalia-Etiopia
Il Kenya propone un trattato regionale sull’accesso al mare
L’ipotesi di un protocollo che definisca i modi in cui gli stati del blocco IGAD senza sbocco marittimo possono accedere ai porti per ragioni commerciali, attualmente al vaglio dei paesi interessati, potrebbe contribuire a una de-escalation delle tensioni tra Addis Abeba e Mogadiscio e dell’intera macro-regione. Nairobi punta anche al rilancio del progetto Lapsset
24 Aprile 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 5 minuti

L’accesso al mare è certamente una delle questioni più scottanti per la regione che si estende dal Corno all’Africa orientale, dove diversi paesi – Etiopia, Rwanda, Burundi, Uganda, Sud Sudan – hanno confini solo terrestri.

In Etiopia – il secondo paese per numero di abitanti e una delle economie in più veloce crescita del continente, nonostante l’instabilità che lo caratterizza – l’accesso diretto al mare è considerato come fondamentale per lo sviluppo economico ed è tra le massime priorità del governo, come ha più volte dichiarato il primo ministro Abiy Ahmed.

All’inizio di quest’anno il governo di Addis Abeba ha pensato di poter risolvere il problema grazie ad un accordo con il Somaliland, paese che si dichiara indipendente dal 1991, ma che è considerato come regione autonoma della Somalia non solo dal governo di Mogadiscio, ma anche dalla comunità internazionale.

Il patto prevede l’affitto per 50 anni di una ventina di chilometri di costa attorno al porto di Berbera per stabilirci una base della marina militare e attività commerciali, in cambio di un futuro riconoscimento dell’indipendenza.  

Come era prevedibile, l’intesa ha provocato un grave stato di tensione con la Somalia che è sfociato, all’inizio di aprile, nell’espulsione dell’ambasciatore e nella chiusura delle rappresentanze consolari etiopiche nel paese.

L’idea di consegnare la sovranità di un tratto strategico di territorio ad un paese straniero per mezzo secolo non è piaciuta neppure nello stesso Somaliland, tanto che i parlamentari hanno chiesto il ritiro dell’accordo già firmato dal presidente, perché, a loro parere, è contrario all’interesse del paese. E dunque, per ora, il disegno di Abiy è stato bloccato.

Direttamente interessato all’intesa marittima in discussione anche Gibuti, i cui due porti, quello storico di Gibuti e quello più recente di Tadjoura, hanno assicurato la quasi totalità del traffico commerciale dell’Etiopia dagli anni Novanta – precisamente dall’indipendenza dell’Eritrea – costituendo un’entrata notevole per il bilancio del paese. L’apertura di un’altra via potrebbe tradursi in una perdita secca per l’economia gibutina.

L’ipotesi di un trattato regionale

Sembra dunque che la questione dell’accesso al mare dell’Etiopia non possa essere risolta sbrigativamente, con un accordo bilaterale.

Lo pensano anche gli altri paesi della regione, e in particolare il Kenya, che dopo aver consultato Gibuti e l’IGAD, l’organizzazione regionale per lo sviluppo, ha recentemente avanzato l’idea di un trattato regionale che definisca i modi in cui gli stati del blocco con confini solo terrestri possono accedere ai porti per ragioni commerciali.

Secondo Korir Sing’oei, sottosegretario al ministero degli Esteri di Nairobi ed esperto di diritto internazionale, l’IGAD avrebbe il ruolo diplomatico e la capacità politica per formulare un simile trattato che allenterebbe nell’immediato il pericoloso contenzioso tra Mogadiscio ed Addis Abeba, garantendo la sovranità territoriale della Somalia e un accesso al mare stabile e sicuro all’Etiopia. Inoltre contribuirebbe in modo significativo alla stabilità dell’intera zona.

L’idea è stata discussa alla metà di aprile a Nairobi dai presidenti di Kenya e Somalia, William Ruto e Hassan Mohamud. Anche il primo ministro etiopico la starebbe esaminando. Se fosse considerata in modo positivo, si passerebbe alla fase dell’elaborazione del trattato.

Intanto Kenya ed Etiopia stanno rafforzando i propri rapporti diplomatici ed economici. Lo scorso febbraio Abiy Ahmed è stato in visita ufficiale a Nairobi dove sono stati siglati “Sette superbi protocolli d’intesa”, come titolava il Daily Nation il 29 febbraio.

Torna in auge il Corridoio Lapsset

Tra l’altro, è proseguita la discussione su come facilitare il traffico commerciale tra i due paesi, compreso l’uso del porto kenyano di Lamu. Il ministro etiopico dei Trasporti e della Logistica, Alemu Sime, in un’audizione al parlamento di Addis Abeba, aveva già sottolineato l’intenzione di differenziare le rotte commerciali per ridurre la sua pesante dipendenza dai porti di Gibuti.

Aveva proseguito dichiarando che il porto di Lamu avrebbe potuto essere usato, tra l’altro, per esportare bestiame e altri prodotti agricoli attraverso il confine meridionale e dunque facilitando le regioni a sud del paese. I primi beni importati, invece, dovrebbero essere i fertilizzanti che dovrebbero arrivare a Lamu prossimamente.

Lamu, sulla costa del Kenya, in prossimità del confine con la Somalia, è il terminal marittimo del complesso di infrastrutture conosciuto come Lapsset Corridor che dovrebbe facilitare i movimenti di uomini e merci di Etiopia e Sud Sudan verso il Kenya e la costa dell’Oceano Indiano, facilitando le comunicazioni e lo sviluppo nella regione.

L’imponente progetto prevede la modernizzazione e l’ingrandimento del porto di Lamu, la costruzione di autostrade, oleodotti, ferrovie, aeroporti, centri urbanizzati con strutture moderne per l’accoglienza, l’istituzione di zone economiche speciali e il rafforzamento dei servizi necessari, come la produzione e distribuzione di energia elettrica.

La sua realizzazione procede a rilento per cause diverse, tra cui: la crisi economica dovuta alla pandemia e ai conflitti in Ucraìna e a Gaza, che hanno un forte impatto sulla regione; i problemi interni ai diversi paesi coinvolti, in particolare l’instabilità in Etiopia e in Sud Sudan; la sicurezza, dal momento che la zona è influenzata dalle attività terroristiche del gruppo qaedista somalo al-Shabaab.

I problemi suscitati dall’accordo tra l’Etiopia e il Somaliland potrebbe essere un punto a favore per la velocizzazione dei progetti del Lapsset Corridor. Non è neppure da escludere che il trattato proposto dal Kenya lo consideri come una sorta di “progetto pilota” da estendere anche ad altri paesi della regione e con simili terminal in altri punti della costa dell’Oceano Indiano.

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Algeria Armi, Conflitti e Terrorismo Economia Marocco Pace e Diritti Politica e Società Sahara Occidentale
Un caso politico la confisca all’aeroporto algerino delle magliette della squadra di Berkane
Algeria-Marocco: lo scontro rotola anche su un campo da calcio
Annullata ad Algeri la semifinale di andata dell’African Football Confederation Cup, tra l' Union Sportive de la Médina d’Alger e la squadra marocchina del Renaissance Berkane. La causa? La maglietta della squadra ospite con disegnata la mappa del Marocco con incluso il Sahara Occidentale
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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La formazione marocchina del Renaissance Berkane

Quando anche tirare un calcio a un pallone si trasforma in un caso politico.

Il conflitto decennale tra Algeria e Marocco per il conteso territorio del Sahara Occidentale si è infatti trasferito su un campo di calcio.

L’attesissima semifinale di andata dell’African Football Confederation Cup, che doveva svolgersi il 21 aprile allo stadio algerino 5 luglio 1962 tra l’ Union Sportive de la Médina d’Alger (USM Alger) e la squadra marocchina del Renaissance Berkane, è stata annullata poco prima del calcio d’inizio. Il motivo? Il design delle magliette della squadra ospite che prevede una mappa del Marocco con incluso il conteso Sahara occidentale.

Bloccati all’aeroporto

La disputa era iniziata il 19 aprile, quando la squadra marocchina è arrivata all’aeroporto algerino Houari Boumediene. I media locali hanno riferito che i doganieri, una volta atterrati dirigenti e calciatori del Renaissance Berkane, hanno confiscato le magliette.

Poco prima del calcio d’inizio previsto per domenica, il direttore sportivo dell’USM Alger, Toufik Korichi, ha detto alla radio algerina che la partita non sarebbe stata giocata perché Berkane si era rifiutato di scendere in campo con altre maglie.

La squadra locale si era offerta di consegnare una maglietta bianca agli avversari. Proposta rifiutata.

Le accuse reciproche

Il media marocchino Hespress, citando fonti interne alla squadra, ha denunciato molestie ingiustificate nei confronti dei giocatori. Il tabloid algerino El Chorouk ha accusato a sua volta il Marocco di politicizzare lo sport.

Il giorno della partita la squadra locale si era offerta di consegnare una maglietta bianca agli avversari. Proposta rifiutata.

L’Unione africana ha esortato la Federcalcio algerina a lasciare che il Renaissance de Berkane utilizzasse le proprie maglie per poter scendere in campo. L’Algeria ha rifiutato, sostenendo che quel disegno non corrispondeva alle mappe delle Nazioni Unite.

I media algerini hanno mostrato la maglia che avrebbero dovuto indossare i giocatori marocchini: bianca senza la mappa. Maglie regalate dalla Federazione algerina.

Non si è presentata in campo

Ma il giorno della sfida solo la squadra algerina è scesa sul terreno di gioco. Era assente anche la terna arbitrale. Mezzora dopo l’orario previsto per l’inizio dell’incontro, la squadra marocchina ha abbandonato lo stadio. Per spiegare la situazione è intervenuto alla radio algerina il direttore sportivo dell’USM Alger Toufik Korichi affermando che la partita non sarebbe stata giocata perché Berkane si era rifiutato di scendere in campo con altre maglie.

La Confederazione del calcio africano (CAF), che ha sede al Cairo, ha risposto al ricorso contro le maglie offerte dalla Federcalcio algerina (FAF) pronunciandosi a favore di Berkane, affermando che il club indossava le stesse maglie dall’inizio del torneo.

La disputa sul Sahara Occidentale

L’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale è in gran parte controllata dal Marocco ma rivendicata come proprio territorio dal Fronte Polisario, sostenuto dall’Algeria. Quest’ultima ha interrotto le relazioni diplomatiche con Rabat nel 2021, anche a causa di questo problema.

Il presidente della Faf, Wafi Sadi, ha poi annunciato che intende portare il caso al tribunale internazionale dello sport. «La nostra posizione è chiara, non ci tireremo indietro e siamo pronti a tutto», ha dichiarato.

Gli ha replicato Hakim Benabdellah, presidente di Berkane: «Non ci sarà dibattito su questo argomento. Non ci sarà partita senza magliette con la mappa completa del regno del Marocco».

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Arte e Cultura
Dal kiswahili all’igbo, allo youruba, gli idiomi più parlati nel continente
Africa, le 10 lingue più diffuse
24 Aprile 2024
Articolo di Redazione
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In Africa si contano oltre 2mila lingue (africane) attive, circa un terzo degli idiomi parlati nel mondo. Con almeno 75 di queste parlate da oltre 1 milione di persone.

I progressi tecnologici, tra cui gli strumenti di traduzione basati sull’intelligenza artificiale, oltre a incentivare la celebrazione del patrimonio culturale, hanno permesso di sfruttare in vari modi il potere del linguaggio. Tuttavia, comprendere le caratteristiche uniche delle lingue più usate costituisce un elemento basilare per comprendere le diverse culture dell’Africa. Ecco una lista delle lingue più parlate nel continente.

Il kiswahili si parla principalmente nell’Africa centrale e orientale e ha collegamenti con centinaia di dialetti, poiché è predominante nella famiglia bantu delle lingue africane. Sono oltre 150 milioni gli africani che lo parlano. È tra le lingue ufficiali in Tanzania, Kenya e Uganda, ed è parlato in ampie zone della regione dei Grandi Laghi. L’Unione Africana lo ha adottato come lingua ufficiale di lavoro per il suo uso molto esteso e per la valenza culturale ed economica.

L’igbo è parlato principalmente in Nigeria. È una lingua tonale, quindi il significato delle parole dipende dalla tonalità applicata da chi parla. Comprende diversi dialetti decentralizzati che condividono l’enfasi sul significato dei nomi e l’uso massiccio di proverbi, metafore e parabole.

L’hausa, appartenente al gruppo linguistico afro-asiatico, è uno dei più antichi idiomi del mondo. Parlato dai milioni di appartenenti alla famiglia etnolinguistica afro-asiatica, facilita il settore del commercio e la comunicazione interpersonale in tutta l’Africa occidentale.

L’oromo è parlato in Etiopia e in parti del Kenya e della Somalia da decine di milioni di persone. Include una grande varietà di dialetti e di modalità diverse nel vocabolario. Fa parte del gruppo di lingue cuscitiche parlate da persone che condividono una cultura e una storia simili nell’Africa nordorientale.

Lo yoruba è parlato principalmente in Nigeria, Benin e Togo. Anche lo yoruba è un linguaggio tonale. L’ampio vocabolario è ricco di saluti, proverbi, metafore e narrazioni folcloristiche.

L’amarico è la lingua ufficiale dell’Etiopia. È la seconda lingua semitica più parlata al mondo dopo l’arabo. Derivato dall’antica lingua gheez, ha un alfabeto alquanto complesso composto di 33 caratteri chiamato fidel e la sua ricca storia letteraria risale al XIII secolo. Un aspetto distintivo della lingua è il “suono esplosivo o scoppiettante” prodotto quando chi parla pronuncia alcune consonanti.

Il fulfulde (fulani) è parlato in tutta l’Africa occidentale e centrale. Mentre la maggior parte delle lingue africane si trovano in un’area specifica, il fulfulde è parlato ampiamente, in diverse regioni. I ricercatori descrivono questo idioma dandogli un grande “valore linguistico”, per i pochi punti in comune che ha con le altre principali lingue dell’Africa occidentale.

Lo zulu è una lingua ufficiale in Sudafrica. Anche la lingua è basata sul tono, come igbo e yoruba. L’uso dei clic insieme alle consonanti è una delle caratteristiche più intriganti dell’idioma zulu. La sua tradizione orale comprende poesie, proverbi e resoconti storici.

Il mandinka ha oltre 12 milioni di persone che se ne servono in vari paesi dell’Africa occidentale: Guinea, Mali, Senegal, Gambia, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio e Burkina Faso. La forte tradizione orale promossa da questa lingua fu ulteriormente rafforzata dai griot, famosi cantastorie, custodi dei resoconti storici e del tessuto culturale delle popolazioni.

La lingua shona è la più diffusa nello Zimbabwe. Anch’essa è una lingua fondata sulla tonalità. L’uso nello shona di toni alti per la comunicazione religiosa e toni bassi per il dialogo ordinario, lo distingue da altri idiomi. Gran parte del vasto vocabolario shona è legato alla vita di famiglia e alle strutture sociali.

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Politica e Società
Intervista a Moky Makura, direttrice esecutiva di Africa No Filter
Sull’Africa serve una “narrazione della speranza”
Sovvertire gli stereotipi di un continente di cui si parla solo in termini di miseria, guerre, corruzione e malattie si può. Ce lo conferma la direttrice di ANF, incontrata al Festival internazionale del giornalismo a Perugia, che ci ha spiegato cos’è il “giornalismo delle soluzioni”
23 Aprile 2024
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 6 minuti
Moky Makura (Credit: screenshot Youtube)

Cambiare la narrativa sull’Africa – quella perennemente concentrata su conflitti, corruzione, povertà, malattie – non è una missione impossibile. È questione di metodo, di attenzione, di serietà professionale e persino di curiosità, quella che consente di guardare oltre e guardare altro.

Un metodo che da quattro anni sta applicando Africa No Filter (ANF), nata con un chiaro obiettivo: rappresentare la dinamicità e la varietà del continente al di là dei consolidati stereotipi e cliché con cui questo è stato (e continua ad essere) rappresentato.

Al Festival internazionale del giornalismo di Perugia, giunto quest’anno alla XVIII edizione, abbiamo intervistato Moky Makura, direttrice esecutiva di ANF, invitata a tenere un panel dal tema Africa: esplorare nuovi modi di informare.

E allora, Moky, quali sono – o dovrebbero essere – questi nuovi modi?

Raccontare più storie sull’Africa, inquadrarle meglio, esaminarne e presentarne la complessità. E poi: redazioni in cui vengano rappresentate le diversità e siano presenti più giovani; dare maggiore spazio al “solutions journalism”, vale a dire quel giornalismo che indaga e spiega, in modo critico e chiaro, come le persone cercano di risolvere problemi ampiamente condivisi.

Inoltre, è necessario un tipo di racconto che parli di speranza, alimenti la speranza. Tecnicamente abbiamo bisogno di long stories, certo, ma anche di articoli brevi, e dell’uso di differenti formati. Ma soprattutto, e questa è la sintesi, abbiamo bisogno di un giornalismo che con sincerità faccia la differenza nel modo di presentare le storie.

Africa No Filter è nato quattro anni fa. Che impatto ha avuto e sta avendo? Credi che questo progetto abbia fatto la differenza?

Credo che la rappresentazione dell’Africa sia migliorata negli ultimi anni, non voglio dire che è dovuto interamente al nostro lavoro ma è così che sta andando. Credo che ci sia più consapevolezza nei giornalisti e ci sono più giornalisti africani sul campo, nelle redazioni, che incidono sulle scelte e sui modi di raccontare le storie.

C’è una nuova generazione di giovani giornalisti che fanno esperienza dell’Africa e la vivono in un modo differente dal passato, dove anche la musica, il cibo, l’arte, i film sono oggetto di attenzione. Insomma, un nuovo approccio del giornalismo allo storytelling.

Le cattive notizie esistono ed esiste una narrazione che le esalta ma tra queste ce ne sono altre, migliori. E trovo comunque che anche le “bad news” si stiano raccontando in un modo diverso.

Come lettrice, in percentuale, quante bad news ti capita di leggere riguardo al continente africano e quante che riguardano storie belle, di cultura, di arte per esempio?

Devo dire che nei media globali ancora il 70% delle notizie pubblicate sono bad news, intendo notizie che mettono in primo piano i problemi dell’Africa. Solo il 30% rappresenta il resto. Ma ogni paese ha problemi e aree dove le cose non vanno bene.

Per quel che riguarda l’Africa la questione è il focus costante su cosa non va, sulle cattive notizie, appunto. Se costantemente si racconta alle persone cosa non funziona, corruzione, povertà conflitti, malattie, ci si convince che quella è l’unica realtà. Ecco perché c’è bisogno di cambiare non solo il focus ma anche come raccontiamo le storie.

È per questo che credo che il “solution journalism” sia la risposta per quanto riguarda il modo di rappresentare l’Africa. Abbiamo tante sfide, certo. Abbiamo dittatori, certo, la corruzione, sì, ed è parte del ruolo dei media raccontare queste cose ma tutto questo non rappresenta la società intera, bisogna raccontare anche il resto, la ricchezza di quello che accade e costituisce le società africane.

In alcuni paesi africani regimi autoritari rendono difficile esercitare la libertà di stampa, è difficile portare a galla quelle bad news su cui sembra concentrarsi la stampa occidentale o fare inchieste per timore di ripercussioni.

Questo è vero. In questi casi sono essenziali la cooperazione e le partnership tra colleghi o progetti giornalistici. Ci sono storie che i giornalisti locali non possono raccontare per questioni di sicurezza, per proteggersi, ecco perché in alcuni casi è importante che lo facciano pubblicazioni estere che lavorano con giornalisti del posto e quando la storia è venuta fuori, a quel punto può essere coperta a livello locale.

Ma, ancora una volta, ricordiamo che questo non riguarda e non accade solo in Africa. Comunque, proprio in quei paesi dove ci sono difficoltà economiche, politiche, c’è bisogno di elementi più positivi. Cosa può funzionare davvero, anche in situazioni e condizioni difficili, è la speranza, perché se non c’è speranza non c’è neanche cambiamento.

La libertà di stampa in alcuni paesi è un problema è vero, ma penso anche che di questa libertà non si dovrebbe abusare. Mi spiego: siccome puoi coprire qualunque cosa perché scegliere sempre e solo quello che va male rispetto a quello che funziona? Anche i giornalisti africani dovrebbero raccontare non solo una porzione di quello che accade.

Parliamo di un altro stereotipo, quello che riguarda le migrazioni e i migranti…

Il numero di africani che vengono in Europa è minuscolo, assolutamente microscopico paragonato al numero di africani che rimangono in Africa. Io combatto anche contro questa narrativa, che è sbagliata.

La migrazione è una questione globale e magari la gente non sa che in realtà la maggioranza dei migranti nel mondo non sono africani, sono asiatici. Inoltre la migrazione più forte è quella all’interno del continente. Il Kenya, ad esempio, è uno dei maggiori paesi al mondo che ospita migranti.

Quando si pensa ai migranti si presuppone sempre che gli africani vogliano scappare dai loro paesi. Non è così. Molti nigeriani non ottengono un visto regolare per entrare in Italia solo perché siamo stereotipati. Capisco che i paesi abbiano bisogno di proteggere i loro confini ma considerare tutti come potenziali migranti in fuga non è giusto.

Ti racconto un fatto recente come esempio: uno dei miei colleghi ha ricevuto una prestigiosa borsa di studio per trascorre un mese in un’istituzione culturale italiana. Quest’uomo ha un buon lavoro in Nigeria, aveva un invito dell’organizzazione, ma gli è stato rifiutato il visto e così non ha potuto partecipare alla “residency”.

Penso che queste cose siano un problema, il mondo è sempre più globalizzato, tante decisioni, tante cose importanti che accadono nel mondo non possono restare chiuse in una stanza, tutti devono esserne partecipi e beneficiari. Va bene proteggere i confini ma non bloccate chiunque, non usate stereotipi nei nostri confronti.

Ci sono leader africani che con le loro politiche e atteggiamenti non aiutano a guardare l’Africa sotto altri aspetti, anzi alimentano i pregiudizi.

Sì, bisogna riflettere su quanto noi contribuiamo all’immagine negativa del continente. Oltretutto molte delle notizie a livello globale riguardano la politica e i nostri leader. Ho scritto un pezzo proprio su questo, African leaders behaving badly (I leader africani si comportano male). La verità è che sì, sono responsabili di molti degli articoli e narrazione negativa riguardante il continente.

Però non possiamo rappresentare un intero paese attraverso il suo leader. È come definire l’America attraverso le azioni di Trump e dire che gli americani sono tutti pazzi. Ecco perché è importante il tipo di storytelling, sono importanti narrazioni con maggiori sfumature.

La Nigeria non è Bola Tinubu. Ci sono le persone, la loro vita e i loro sforzi quotidiani. Persone che hanno aspirazioni. Raccontare solo i leader, ciò che li riguarda, la politica, rappresenta solo un decimo dell’intera storia.

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