Nigrizia

Ambiente Pace e Diritti
J'accuse di Survival International nella Giornata internazionale del patrimonio mondiale
L’UNESCO complice delle violazioni dei diritti dei popoli indigeni
Il nuovo report analizza sei siti considerati patrimonio dell’umanità, dimostrando come l’agenzia dell’ONU non solo non si sia opposta agli abusi contro le popolazioni native, ma anzi come in più di un’occasione le sue disposizioni di conservazione li abbiano originati. In Africa i casi di Congo, Tanzania ed Rd Congo
18 Aprile 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 7 minuti
Donne e bambini baka nei pressi del Parco nazionale di Odzala-Kokoua, Repubblica del Congo. I baka non possono più entrare nella loro foresta per raccogliere cibo o piante medicinali: questo danneggia sia i baka sia la foresta stessa. (Credit: ©Survival)

Il 18 aprile si celebra la Giornata internazionale del patrimonio mondiale, cioè il complesso di siti naturali, opere dell’uomo, aspetti culturali che l’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) ha individuato e protegge come eredità dell’umanità da trasmettere alle generazioni future.

Nell’occasione, Survival International ha diffuso il rapporto #DecolonizeUNESCO, in cui evidenzia come l’organizzazione sia complice nel violare i diritti alla terra e i diritti umani dei popoli indigeni che risiedono tradizionalmente in numerosi siti protetti come patrimonio dell’umanità.

Survival mette sotto accusa il quadro di riferimento teorico che guida l’UNESCO nel selezionare i siti da proteggere e le pratiche di protezione che implicano sfratti forzati della popolazione locale e abusi gravissimi per scoraggiarla dal ritornare.

Caroline Pearce, direttrice generale di Survival International, chiarisce il concetto: “Quelli che l’UNESCO definisce ‘siti patrimonio naturale dell’umanità’ sono molto spesso terre ancestrali rubate ai popoli indigeni, che poi da queste terre vengono tenuti fuori con la forza, l’intimidazione e il terrore. La sua complicità è andata oltre il silenzio per arrivare fino a sostenere attivamente governi e iniziative che violano i diritti indigeni.”

Nell’introduzione del rapporto se ne chiarisce il titolo, che chiede di decolonizzare l’UNESCO, accusata di muoversi ancora nel contesto di una mentalità coloniale, secondo cui i popoli non europei, e a maggior ragione quelli nativi, non avevano le capacità politiche e le conoscenze scientifiche per governare e proteggere le proprie terre, sviluppando il concetto che, per salvaguardarle, fosse necessario un intervento esterno da condurre anche al costo di escludere e sfrattare gli abitanti locali.

È l’idea della “conservazione fortezza” che ancora va per la maggiore in molti circoli ambientalisti internazionali.

Nelle prime righe del rapporto si legge che “l’UNESCO ha svolto un ruolo importante nella diffusione della “conservazione fortezza” a partire dall’Africa, in particolare dopo la fine del dominio coloniale.

Negli anni che seguirono l’indipendenza dei nuovi stati africani, l’UNESCO ha giocato un ruolo centrale nel diffondere l’idea che la natura africana dovesse essere salvata attraverso l’intervento di “esperti” (principalmente ex-ufficiali coloniali), l’applicazione della scienza occidentale e la creazione di parchi nazionali che escludessero gli abitanti originari.

Il primo direttore dell’UNESCO, Julian Huxley – che in seguito fu uno dei fondatori del WWF – identificò esplicitamente le popolazioni locali africane come un “ostacolo alla conservazione” perché utilizzavano le risorse del territorio – legna da ardere, animali selvatici, erbe – per la propria sopravvivenza, in conflitto con lo stupore e il piacere che ne avrebbero potuto ricavare i colonizzatori, e poi i turisti.

In questo ha origine l’idea di creare aree protette “nelle terre dei popoli indigeni e senza il loro consenso”. Idea rafforzata poi dall’istituzione dei siti patrimonio mondiale in forza della quale “l’UNESCO mette gli ecosistemi che sono stati plasmati e abitati dai popoli indigeni sotto la tutela di una generica umanità”.

Solo più tardi l’UNESCO riconobbe che la conservazione era percepita come incompatibile con le esigenze delle comunità locali e così sviluppò il concetto di “conservazione comunitaria”, aggiornando politiche, linee guida e pratiche da applicare. Eppure ancor oggi, continua il rapporto “se la retorica è basata sulla comunità, la pratica è rimasta anti-comunitaria”.

I casi di Tanzania, Congo ed Rd Congo

Survival International lo dimostra analizzando la realtà in sei siti, tre in Asia (Nepal, India e Thailandia) e altrettanti in Africa, inclusi nella lista di quelli considerati patrimonio mondiale dell’umanità.

Dei siti africani, Nigrizia si è già occupata in diverse occasioni. Il rapporto mette ora in luce come l’UNESCO non si sia opposta alle violazioni e agli abusi contro le popolazioni che li abitano tradizionalmente, anzi come in più di un’occasione le sue disposizioni li abbiano originati.

Il primo esempio riguarda l’area di conservazione del Ngorongoro, in Tanzania. Secondo un leader maasai della zona: “Il sostegno dell’UNESCO viene usato per sfrattarci. Siamo davvero stanchi e confusi, non sappiamo quando moriremo”.

Dal 2010 la zona è riconosciuta come patrimonio misto, naturale e culturale, ma questo non ha portato al riconoscimento del ruolo e dei diritti territoriali dei maasai. Perfino il governo tanzaniano aveva sottolineato “l’eccezionale importanza dei maasai per un’efficace conservazione”, ma nella sua decisione l’UNESCO non ha fatto menzione, anzi ha ricordato la necessità di contenere la presenza dei maasai e delle loro attività nei confini del territorio protetto.

In altre occasioni aveva addirittura minacciato di eliminare il sito dalla lista di quelli patrimonio mondiale se non ci fossero stati interventi urgenti per limitare la presenza umana, richiesta che aveva aperto la porta ad abusi e violazioni nei confronti delle comunità maasai che vi risiedono. Per questo motivo i leader maasai hanno, loro, richiesto che Ngorongoro sia cancellata dai siti patrimonio mondiale.

Altro sito preso in considerazione è il Parco nazionale di Odzala-Kokoua, nella Repubblica del Congo, abitato tradizionalmente dai baka, che ne sono stati scacciati provocando il loro impoverimento economico e minacciando la loro identità culturale. “Abbiamo bisogno della foresta. I nostri figli non conoscono più gli animali né le nostre piante medicinali tradizionali. Ora i baka vivono lungo la strada. Dirvi questo mi fa male al cuore. Ma senza i baka, anche la foresta è malata”. Così uno di loro ha descritto la situazione.

Il parco è gestito da African Park, un’associazione conservazionista privata molto ben ammanicata (del suo board fa parte il principe Harry) che ha adottato un approccio militarizzato. Violazioni e abusi gravissimi contro la popolazione nativa sono all’ordine del giorno. Il parco è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’umanità l’anno scorso anche se erano già ben conosciute le violazioni che vi erano perpetrate.

Inoltre era chiaro, dal documento presentato dal governo, che non erano state seguite le linee guida per la partecipazione delle comunità locali alla decisione di presentare la richiesta. Ma le due circostanze non hanno costituito un impedimento per la decisione del Comitato UNESCO.

Infine il rapporto presenta il caso del Parco nazionale di Kahuzi-Biega, nella Repubblica democratica del Congo, abitata dai batwa, dove gli abusi sono tali da far dire ad una donna, violentata ripetutamente da soldati e guardiaparco: “Viviamo nella foresta. Quando ci vedono, ci violentano. Se dovremo morire, moriremo, ma resteremo nella foresta”.

Violenze ributtanti contro la popolazione della foresta sono state documentate da Minority Rights Group (MRG) che le ha descritte come “parte di una politica istituzionale sancita e pianificata al più alto livello dalla leadership del parco”.  

Nonostante tutto questo fosse ben conosciuto, il Comitato per il patrimonio mondiale ha chiesto al governo di “rafforzare la lotta contro il bracconaggio e di continuare i pattugliamenti … aumentare la portata e la frequenza dei pattugliamenti … evacuare gli occupanti illegali”.

In questo modo l’UNESCO ha di fatto legittimato e incoraggiato le operazioni che hanno portato agli abusi e alla violenza estrema contro i batwa.

Perciò, in occasione della celebrazione odierna, Survival International chiede all’UNESCO di:

  • Smettere di sostenere abusi dei diritti dei popoli indigeni nel nome della conservazione
  • Togliere lo status di Patrimonio dell’Umanità a qualsiasi sito in cui si verificano atrocità contro i diritti umani
  • Promuovere un modello di conservazione basato sul pieno riconoscimento dei diritti territoriali indigeni

Questo anche in considerazione del fatto che i popoli indigeni sono i migliori custodi della biodiversità, conclude il rapporto, come dimostrano ultimi studi scientifici mai ampiamente accreditati.

Guardie e soldati nel Parco nazionale di Kahuzi-Biega bruciano le case dei batwa per costringerli ad andarsene dal parco, loro terra ancestrale. (Credit: © KBNP)
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Podcast Politica e Società
Altri temi: un anno di guerra senza fine in Sudan / Nuove ambasciate ucraìne in Africa
Africa Oggi podcast / Meloni: la gestione migranti nelle mani di Saied
18 Aprile 2024
Articolo di Luca Delponte
Tempo di lettura 1 minuti
Guardia costiera tunisina dopo il recupero di migranti in mare
  • La premier italiana Giorgia Meloni per la quarta volta in Tunisia per replicare lo schema Europa-Turchia (e Italia-Libia), e il paese ha bisogno di soldi… molti. L’analisi di Giuseppe Acconcia, docente di geopolitica del Medioriente all’Università di Padova
  • Un anno di guerra senza fine in Sudan. Di Michela Trevisan
  • Nuove ambasciate ucraìne in un’Africa contesa. Dalla corrispondente dal Ghana, Antonella Sinopoli

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Migrazioni Pace e Diritti Politica e Società
Dossier del Tavolo Asilo e Immigrazione su ispezione negli otto Centri di permanenza e rimpatrio
500 vite rinchiuse nei CPR tra psicofarmaci e violazione dei diritti
18 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
Il CPR di Gradisca

«Luoghi di vera a propria “detenzione” in cui le persone sono “detenute” senza aver commesso alcun reato e con l’unico scopo – per lo più irrealizzabile, di fatto e di diritto, e irrealizzato – di essere rimpatriate, mentre non vedono garantiti i diritti previsti per i detenuti nelle carceri italiane».

È questa la definizione data degli 8 CPR (Centri di permanenza e rimpatrio) che il Tavolo Asilo e Immigrazione, composto da oltre 40 organizzazioni della società civile italiana, ha visitato. «In questi luoghi – si legge nel report, dove si trovano numeri e descrizioni delle situazioni riscontrate – i diritti fondamentali delle persone vengono calpestati quotidianamente. Le persone sono abbandonate a sé stesse, poco o per niente informate sui loro diritti e sul loro futuro.

Allo stato di abbandono si affianca “un abuso intollerabile di psicofarmaci”, la negazione del diritto alla difesa, praticamente impossibile, o gestito in maniera disomogenea e comunque arbitraria. Sembrerebbe non esserci niente di nuovo sotto questo sole che illumina ancora una volta queste carceri legalizzate dove da oltre 25 anni si consumano violazioni dei diritti aggravate dal fatto che nessuno degli scopi per le quali sono state pensate dall’oramai lontanissimo Testo Unico sull’Immigrazione del 1998 viene raggiunto.

Accanto al Tavolo, i parlamentari e consiglieri regionali delle forze di opposizione del governo attuale, forze che comunque non hanno mai provveduto a cambiar rotta rispetto a una stabilizzazione di questo sistema di contenimento delle persone migranti.

Sistema che, lo ricorda il report, ha all’attivo uno spreco di denaro pubblico, più di 40 morti da quando è stato istituito, violenze sistematiche e denunce di atti di autolesionismo e tentativi di suicidio da parte delle persone rinchiuse senza aver commesso alcun reato.

Il Tavolo è riuscito ad accedere nella maggior parte dei casi (due i centri in cui si è verificato ostruzionismo) nei centri. Questo ha dato la possibilità di raccogliere dati quantitativi e di rilevare aspetti qualitativi rispetto sia alle strutture che alle condizioni di trattenimento delle persone. Questi “luoghi-non-luoghi” dove si trovano «celle stipate di persone, dove il tempo non passa mai, situati per lo più lontano dalla vista dei cittadini comuni».

Più di 500 le persone “ospiti/detenute”, in gran parte uomini, di provenienza varia, per lo più nordafricana (Tunisia, Marocco, Algeria, Egitto) e subsahariana (Nigeria, Gambia), che arriva dal carcere, dalla strada, ma anche dagli sbarchi. Diversi i richiedenti asilo che per legge non dovrebbero trovarsi lì. Tanto spaesamento, estraneazioni; in diversi prendono farmaci senza saperne il motivo e vengono somministrati psicofarmaci in maniera massiccia.

Davanti a questo quadro, nel centenario della nascita di Franco Basaglia, il tavolo sottolinea come colpisca «constatare che esistano istituzioni totali così disumanizzanti in piena Europa».

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Arena di Pace 2024 Armi, Conflitti e Terrorismo Banche armate Pace e Diritti Politica e Società
Il 17 aprile a Roma le 80 realtà promotrici della campagna a difesa della misura che permette di monitorare l'export di armamenti
La sicurezza passa dai diritti, non dalle armi. Proteggiamo la legge 185
La Camera sta discutendo un progetto di norma che rischia di indebolire questo importante presidio di democrazia e pace
17 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti
L'incontro di oggi a Roma, Foto dalla pagina Facebook Servizio Civile e Pace - Comunità Papa Giovanni XXIII

Gli esponenti di oltre 80 organizzazioni della società civile italiana si sono ritrovati oggi presso la sede di Libera a Roma per rilanciare la mobilitazione in difesa della legge 185 del 1990 che disciplina il commercio e l’export di armi italiane. Questa legge – che aveva posto l’Italia all’avanguardia nel panorama europeo – è oggi oggetto di una radicale proposta di revisione avanzata dal Governo che mira a eliminare i principali presidi di trasparenza e di controllo parlamentare sulla produzione e sull’export di armi italiane verso il resto del mondo. Le modifiche sono già state approvate dal Senato e sono ora all’esame della Camera.

«Non esiste pace senza disarmo. Alla cattiva politica, quella che vuole togliere una serie di pilastri fondamentali di trasparenza, si può rispondere assumendoci più responsabilità – ha detto Don Luigi Ciotti – Nel mondo oggi ci sono 59 guerre; c’è una follia distruttiva. Bisogna ribadire con forza che il diritto alla sicurezza che tutti reclamano deve essere soprattutto sicurezza dei diritti, intesa come libertà, dignità e la vita delle persone. Non dimentichiamo che il mercato delle armi è il più soggetto a fenomeni di corruzione e che dove ci sono le guerre, le mafie fanno affari mentre il traffico delle droghe e delle armi vanno sempre a braccetto».

Don Ciotti ha concluso citando Papa Francesco: «Tutti i conflitti nuovi pongono in rilievo le conseguenze letali di una continua rincorsa alla produzione di sempre più sofisticati armamenti, talvolta giustificate adducendo il motivo che se una pace oggi è possibile non può essere che la pace fondata sull’equilibrio delle forze. Occorre scardinare tale logica e proseguire sulla strada del disarmo integrale».

La petizione 

Padre Alex Zanotelli ha ribadito che: «Siamo prigionieri del complesso industriale militare» citando i dati relativi alle spese militari in continua crescita rispetto negli ultimi anni e che, di conseguenza, hanno fatto notevolmente aumentare anche il commercio internazionale di armi (+86% per l’Italia negli ultimi cinque anni).

Teresa Masciopinto, presidente di Fondazione Finanza Etica, a nome del Gruppo Banca Etica ha ricordato come le modifiche alla legge 185 mirino anche a cancellare la possibilità di sapere quali banche finanziano la produzione e l’export di armi, mentre Francesco Vignarca di Rete Italiana Pace e Disarmo ha ricordato che la legge 185 è nata 34 anni fa da una forte mobilitazione delle reti della società civile che oggi si stanno riattivando per difenderla e come le modifiche proposte alla legge non porteranno maggiore sicurezza.
Francesca Rispoli di Libera ha infine ricordato che un primo passo per difendere la legge è firmare la petizione disponibile sul sito qui.  

A sostegno della mobilitazione “Basta favori ai mercanti di armi!” sono intervenuti all’evento di questa mattina a Roma anche Raul Caruso, professore di Economia Internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Riccardo Noury, portavoce Amnesty International Italia; Alfio Nicotra, co-presidente Un ponte per e Consiglio nazionale AOI; Greta Barbolini, presidenza nazionale ARCI; Vincenzo Larosa, delegato dalla presidenza Azione Cattolica; Stefano Regio, presidente Federazione Lazio CNCA; Laura Milani, presidente CNESC e Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; Gabriele Verginelli, per Legacoop; Emilia Romano, presidente Oxfam Italia, don Tonio dell’Olio, presidente Pro Civitate Christiana; Pierangelo Milesi, delegato Pace della Presidenza ACLI; Giuseppe Daconto, Centro Studi di Confcooperative; Maximilian Ciantelli, presidente Mani Tese Firenze; Alfredo Scognamiglio, del Movimento dei Focolari Italia; Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo. Sono intervenuti anche i deputati Laura Boldrini (PD) e Riccardo Ricciardi (M5S) che hanno illustrato gli emendamenti presentati dall’opposizione alle proposte di modifica di legge.

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Migrazioni Politica e Società Tunisia Unione Europea
La presidente del Consiglio in Tunisia per la quarta volta in meno di un anno. Tra accordi e appelli, danaro e motovedette
Meloni da Saied per fermare i migranti
17 Aprile 2024
Articolo di Redazione
Tempo di lettura 3 minuti

Quattro visite in meno di un anno. Ma anche quella odierna ha lo stesso scopo delle precedenti: rafforzare gli accordi che si hanno con la Tunisia, soprattutto nella gestione dei flussi migratori, e rincuorare della presa in carico delle istanze di sollecito di quei 900 milioni di euro che il paese non ha ancora visto dall’Europa.

Così per prima cosa, in un incontro durato all’incirca un’ora, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha ribadito il suo grazie «alle autorità tunisine e al presidente Saied per il lavoro che cerchiamo di portare avanti insieme contro i trafficanti di esseri umani».

Insieme, vista la rivendicazione da parte di Kais Saied, a dicembre dello scorso anno, di aver bloccato 70mila persone migranti intercettate nel 2023 mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo per arrivare in Italia; e tenuto conto della prevista consegna di sei motovedette in regalo dall’Italia, che ripete con lo stato nordafricano il modello di patto con la Libia.

Regalo costoso (4 milioni e 800mila euro) oggetto di contestazione da parte di Asgi,  Arci, ActionAid, Mediterranea, Spazi Circolari e Le Carbet, che hanno impugnato il finanziamento deciso dal ministero dell’Interno, attraverso un’istanza cautelare di fronte al Tar del Lazio, che ha già calendarizzato un’udienza a proposito per il prossimo 30 aprile.

Azione che si aggiunge a quella portata avanti da 36 organizzazioni della società civile tunisina, tra cui il Forum tunisien pour les droits economiques et sociaux, Avocats Sans Frontières e Migreurop, che fanno notare come, a poco più di un anno dal discorso razzista del presidente Saied, la violenza e gli abusi continuino a essere sistematici da parte delle autorità tunisine contro le persone provenienti dall’Africa subsahariana.

Gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani che rimangono impunite e sembrano essere invisibili agli occhi di un’Italia che fa accordi e un’Europa che ha promesso soldi a un dittatore purché svolga il “lavoro sporco” capace di frenare il fenomeno migratorio.

Ma il lavoro sporco ha un prezzo che va incassato e il presidente Saied lo rivendica con sempre eguale minaccia: bloccare o meno le partenze. Da inizio anno i dati degli arrivi in Italia dicono che le partenze dalla Tunisia sono in diminuzione, motivo di autoelogio da parte del governo che rivendica l’accordo sui flussi stretto con il paese africano.

Ma nelle ultime settimane è proprio da questo paese che si è registrata un’impennata del numero degli arrivi. In trenta giorni si è registrato il 337% degli sbarchi in più rispetto al mese precedente: 5.587 le persone migranti partite da Sfax. Un numero considerevole, se si conta che dall’inizio dell’anno al 15 aprile le persone sbarcate sono 16.090.

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