
“In quattro anni, la Tunisia è passata dall’essere un faro democratico a un laboratorio autoritario”. La Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH) introduce così il suo ultimo lavoro, Dal colpo di stato alla soppressione dei diritti: il modus operandi della repressione in Tunisia (2021-2025). Diffuso il 17 giugno, il rapporto trae un bilancio dello stile di governo del presidente tunisino Kais Saied dall’estate 2021 ad oggi. Il lavoro s’incrocia con l’ultima pubblicazione di Amnesty International che denuncia la repressione di attivisti ambientalisti e sindacalisti.
Era il 25 luglio 2021 quando Kais Saied invocò l’articolo 80 della Costituzione del 2014 per giustificare l’adozione di una serie di misure eccezionali. Come la sospensione del parlamento, sciolto di fatto nel 2022. Per il presidente tunisino, la crisi politico-economico-sanitaria esacerbata dalla pandemia da Covid-19 stava minacciando l’indipendenza e le istituzioni statali.
La risposta fu l’accentramento dei poteri esecutivi nelle sue mani, facendo retrocedere da lì in poi le libertà democratiche nel paese nordafricano: nel Democracy Index dell’Economist, la Tunisia si trovava al 53esimo posto su 167 paesi nel 2019, mentre quest’anno si posiziona al 93esimo.
Scioglimento del Csm e revoca dei magistrati
La deriva autoritaria si è palesata ancor di più con lo scioglimento, tramite decreto presidenziale, del Consiglio superiore della magistratura (CSM). Istituito nel 2016, il CSM aveva rappresentato un passaggio chiave nella transizione democratica del paese all’indomani della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011.
Tuttavia, Saied ha ritenuto che i suoi giudici fossero corrotti e asserviti agli interessi politici, sostituendo l’organo con un nuovo consiglio provvisorio. Dei suoi 21 giudici, 9 vengono nominati dal presidente.
Tale decisione è stata seguita dalla revoca arbitraria per decreto presidenziale di 57 magistrati, tra cui 7 donne accusate di corruzione finanziaria e morale, adulterio e ostruzione alle indagini in casi di terrorismo. Per il tribunale amministrativo, tale revoca violava i princìpi fondamentali della giustizia e dell’indipendenza del potere giudiziario.
A sua volta, la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli ha ordinato l’abrogazione del decreto presidenziale riferito alla revoca. La risposta del ministero della Giustizia, soggetto alla presidenza, è stata ignorare l’ordinanza del tribunale, violando il rispetto delle decisioni giudiziarie.
Libertà d’espressione minacciata
Ma la pressione di governo non si è fermata alla magistratura. Se la strategia di governo collaudata da Kais Saied si poggia sull’adozione di decreti presidenziali dall’incerta legittimità costituzionale, questo è particolarmente vero se si considera il decreto 54 sulla criminalità informatica.
Si tratta di un provvedimento criticato dalla società civile che legittima, di fatto, la sorveglianza online di giornalisti, attivisti e politici. Infatti, chiunque tenti di esprimersi in modo critico nei confronti del governo può essere tacciato di diffondere “fake news”.
Sul fronte delle libertà individuali, anche la comunità LGBTQIA+ è nel mirino della repressione. Gli attivisti e le attiviste possono essere perseguiti dall’articolo 226bis del Codice penale tunisino, un articolo che definisce vagamente i concetti di “buon costume” e “oltraggio al pudore pubblico”.
A tali reati viene lasciato un ampio margine di interpretazione, ponendo in una condizione di insicurezza i creatori di contenuti sulle piattaforme social. Secondo FIDH, tra il 31 ottobre e il 6 novembre 2024, almeno sette influencer sarebbero stati condannati in primo grado a pene comprese tra 18 mesi e 4 anni e mezzo di carcere, per aver diffuso contenuti contrari ai buoni costumi.
Il rapporto Amnesty: attivisti ambientali sotto accusa
La persecuzione si stratifica quando uno stesso attivista si batte per più cause giuste. Come nel caso di Mohamed Ali Rtimi, membro dell’Associazione tunisina per la giustizia e l’uguaglianza (DAMJ). Rtimi promuove l’inclusione per le comunità LGBTQIA+ in Tunisia, ed è stato arrestato il 23 maggio dopo aver partecipato a una manifestazione pacifica del movimento Stop Pollution, nel governatorato di Gabès.
Il movimento chiede che le unità inquinanti del complesso chimico gestito dal Groupe Chimique Tunisien SA siano smantellate e che il progetto di produzione di idrogeno verde, in partnership con l’UE, venga interrotto. Rtimi, accusato di aver aggredito un agente della polizia, ha raccontato di essere stato picchiato durante la sua presa in custodia, riportando evidenti lesioni fisiche oltre che psicologiche.
L’esperienza di Rtimi come attivista ambientale rientra nell’ultima relazione di Amnesty International. Il rapporto segnala che le autorità tunisine impugnano gli articoli 136 e 107 del Codice penale per accusare di “ostruzione al lavoro” gli attivisti che si battono per un ambiente sano. L’accusa prevede fino a tre anni di carcere e una multa di 720 dinari tunisini, circa 211 euro.
Mentre lo stato criminalizza chi difende l’ambiente, la comunità internazionale premia chi si batte per esso: ad aprile, Semia Gharbi ha vinto il prestigioso Goldman Environmental Prize, l’equivalente del premio Nobel per l’ambiente. Grazie alla scienziata ed educatrice ambientale tunisina, la Tunisia era riuscita a sventare l’importazione illegale di 6mila tonnellate di rifiuti domestici provenienti dall’Italia. Un precedente che dimostra quanto ci sia bisogno di personalità indipendenti che si spendono a difesa dell’ambiente.