Lo Zambia è sempre più vicina a una ristrutturazione del suo debito sovrano quattro anni dopo il default annunciato nel 2020 e nel pieno di una siccità che sta colpendo duramente l’economia del paese, secondo maggior produttore al mondo di rame.
Dopo un’intesa con i cosiddetti creditori ufficiali raggiunta lo scorso ottobre e un accordo preliminare con i creditori privati lo scorso marzo, il governo di Lusaka ha annunciato oggi una nuova intesa di principio da 1,5 miliardi di dollari con due dei maggiori creditori commerciali, le banche cinesi di proprietà statale China Development Bank and Industrial e Commercial Bank of China.
I due istituti hanno negoziato con lo Zambia in forma separata rispetto al governo cinese, che ha invece partecipato al processo insieme agli altri paesi creditori, pur non facendo parte del Club di Parigi dei tradizionali detentori del debito dei paesi in via di sviluppo.
Il Common Framework
Questo coinvolgimento di Pechino si è reso possibile nell’ambito della G20 Common Framework, una nuova iniziativa lanciata dal “Forum dei 20 grandi” nel pieno della fase più acuta della pandemia di Covid-19, nel 2020.
Questa piattaforma è nata con l’obiettivo di far sedere allo stesso tavolo i principali creditori dei paesi a basso reddito e in stress debitorio, includendo anche quelli che non fanno parte del già citato Club di Parigi come appunto Pechino, ma anche Arabia Saudita, India o Emirati arabi uniti. Il Common Framework è anche il primo meccanismo a prevedere una forma di coordinamento con i creditori privati, che non fanno parte ufficialmente della piattaforma ma che devono rispettare alcune condizioni nei loro negoziati paralleli.
Lo Zambia ha fatto in questo senso da esperienza pilota: il paese è stato il primo a fare default sul debito durante la pandemia e anche il primo a beneficiare del meccanismo messo in piede dal G20.
Quanto raggiunto negli ultimi mesi sta modificando la valutazione complessiva sul Common Framework di molti analisti.
La piattaforma voluta dal G20 era stata infatti definita lenta e inefficace e accusata di non aver fatto registrare alcun tipo di progresso ancora alla fine del 2023. Oltre a Lusaka, anche Ghana, Etiopia e Ciad hanno avviato negoziati per la ristrutturazione del loro debito in questo contesto.
Tornado all’intesa fra lo Zambia e le banche cinesi, questa è già stata approvata dal Fondo monetario internazionale (FMI) e dal comitato dei creditori ufficiali, ovvero gli stati. «Il prossimo passo è finalizzare gli accordi per l’esecuzione», ha affermato quindi il ministro delle Finanza zambiano Situmbeko Musokotwane, che non ha reso noti i termini dell’intesa.
Termini che potrebbero essere però importanti per capire quanto avanti può andare il già lungo (quasi quattro anni, appunto) processo di ristrutturazione del debito zambiano. Gli accordi già raggiunti da Lusaka prevedono infatti una clausola detta del “creditore maggiormente favorito”.
Qualora i creditori commerciali riuscissero a negoziare un patto con Lusaka migliore di quello ottenuto dagli altri creditori, quindi, questi ultimi avrebbero diritto a beneficiare delle loro stesse condizioni. E dunque, si presume, a riaprire i negoziati.
Lo Zambia sta anche beneficiando di un piano di sostegno dell’FMI dalla durata di 38 mesi. Lo scorso giugno l’istituto di base a Washington ha completato la terza tranche di revisione dell’accordo e messo a disposizione di Lusaka una nuova linea di credito da circa 570 milioni i dollari.
Sempre a giugno, l’FMI ha accolto la richiesta zambiana di portare da 1,3 a 1,7 miliardi di dollari l’esborso complessivo dal piano, nell’ottica di supportare Lusaka nel contrasto alla siccità.
La mancanza di piogge, prodotta dal fenomeno climatico del Niño, ha causato una drastica diminuzione dei raccolti di coltivazioni essenziali come il grano e un altrettanto drastico diminuzione della disponibilità d’acqua, con ricadute gravissime sul comparto idroelettrico che da solo garantisce l’85% del fabbisogno energetico del paese.
Un debito che viene da lontano
La parabola del debito zambiano dice molto delle difficoltà della classe politica del paese ad avviare programmi di sviluppo sostenibili sul lungo periodo ma anche delle storture insite nell’architettura finanziaria globale e della sua evoluzione negli ultimi anni.
Il default cagionato dalla pandemia è stato infatti solo l’ultimo passaggio di un processo cominciato con i drastici tagli al debito ottenuti a inizio anni 2000 – dai 7,1 miliardi di dollari nel 2004 a 500 milioni di dollari nel 2006 – e anni di crescita economica, aiutati anche da un aumento del prezzo del rame sui mercati, fino a passare da paese a basso reddito a basso-medio reddito per la Banca Mondiale nel 2011.
Poi però sono venuti i costosissimi piani di sviluppo infrastrutturale voluto dal governo dell’ex presidente Edgar Lungu, finanziati per lo più dalla Cina, una terribile siccità nel 2015 e la crescita di debito contratto a condizioni non agevolate, sia da Pechino che da creditori privati.
Una tendenza simile a quella che si è osservata in tutti i paesi a basso e medio reddito che ha peggiorato di gran lunga la qualità del debito e le possibilità di Lusaka di ripagarlo. Lo shock economico prodotto dalla pandemia, poi, ha fatto il resto…