Disinformazione digitale. Anche questa può minare la democrazia e i processi elettorali. Esistono prove di come e quanto i politici abbiano intrapreso campagne di disinformazione sempre più sofisticate attraverso la rete. Troll, cyborg e bot utilizzati e attivissimi su piattaforme come Facebook e X per profilare i cittadini, manipolare opinioni e comportamenti, diffondere intenzionalmente informazioni false, interrompere il dibattito e soffocare il dissenso.
Queste prove sono state raccolte nel volume “Digital Disinformation in Africa: Hashtag Politics, Power and Propaganda” – dedicato alla disinformazione digitale in Africa – e che rientra in una serie di tre volumi dell’African Digital Rights Network, pubblicati in collaborazione con l’Institute of Development Studies. Volumi tra l’altro disponibile anche in accesso libero via web.
«In un’era in cui campagne hashtag come #MeToo e #BlackLivesMatter catturano l’attenzione globale sulle vittime dell’ingiustizia, politici e aziende stanno spendendo miliardi impiegando società di consulenza tipo Cambridge Analytica per produrre disinformazione, impiegando troll, cyborg e bot per interrompere il dialogo e soffocare dissenso». Così si legge nell’introduzione al testo. Primo lavoro di questo genere che presenta una serie di casi studio di queste dinamiche – che in Africa sono emergenti – mappando e analizzando le operazioni di disinformazione in dieci paesi. Si tratta di Zimbabwe, Mozambico, Etiopia, Sudafrica, Rd Congo, Camerun, Uganda, Angola, Kenya e Nigeria.
Da #EndSARS al sostegno a Museveni
Ma entriamo nel merito. Si parla ad esempio di come il governo nigeriano abbia utilizzato la disinformazione quando la campagna #EndSARS stava concentrando l’attenzione sulla brutalità e la corruzione della polizia. Oppure, ci sono approfondimenti su come attori filogovernativi abbiano risposto alla campagna virale #ZimbabweanLivesMatter; e come gruppi platealmente misogini si siano mobilitati contro la campagna #AmINext contro la violenza di genere in Sudafrica. Ma di esempi ce ne sono molti altri e tutti dimostrano quanto queste campagne di fake news e manipolazioni di fatto incidano sulle elezioni e sui risultati elettorali.
Per esempio, è emerso che in Uganda, in vista della competizione elettorale del 2021, ci siano state numerose violazioni dei diritti umani e di autoritarismo digitale – blocco dell’uso di siti web e della messaggistica sul cellulare –. Varie iniziative politiche hanno utilizzato campagne hashtag per condividere non informazione ma disinformazione a vantaggio dei propri interessi. Molti si sono rivelati account falsi che diffondevano immagini fuorvianti. Passiamo all’Angola, dove, in vista delle elezioni generali del 2022 il partito al governo ha deliberatamente utilizzato la disinformazione digitale per diffamare il candidato presidenziale dell’opposizione, Adalberto Costa Junior dell’Unita. La campagna diffamatoria includeva la diffusione di contenuti con l’hashtag #IsACJreallyAnEngineer? Hashtag creato allo scopo di mettere in dubbio i suoi titoli accademici.
Il caso Zuma in Sudafrica
Infine altro esempio specifico è il Sudafrica. L’analisi ha rilevato che, nonostante le preoccupazioni sull’interferenza russa durante le ultime elezioni generali (2019), sono state in realtà le prolifiche campagne di disinformazione sui social media a svolgere un ruolo significativo. Tra il 2017 e il 2019, la ricca famiglia Gupta – con stretti legami con Jacob Zuma e al centro di un esteso sistema di corruzione denominato State capture – ha assunto la società di pubbliche relazioni britannica Bell Pottinger per creare oltre 100 account falsi su Twitter, pubblicando almeno 185.000 post – con un notevole elemento di disinformazione. Un esempio è stata la campagna con l’hashtag #Jonasisaliar fabbricata da questi profili per diffondere informazioni false e screditare l’allora vice ministro delle Finanze, Mcebisi Jonas.
Gli autori del volume riconoscono che la disinformazione nella politica in Africa è antecedente all’era digitale, e in quel caso usava la stampa tradizionale e i media televisivi. Tuttavia, la rapida espansione dell’accesso a Internet – soprattutto dagli smartphone – e ai social media, combinata con i big data provenienti da piattaforme come Facebook, Google e X, consentono il micro-targeting di milioni di cittadini con messaggi diversi per specifici gruppi demografici o singoli individui. Cosa che ha aumentato drasticamente la portata e l’impatto della disinformazione digitale in tutto il continente africano. I ricercatori hanno scoperto che tali campagne online si rivolgono sempre più a tipi di pubblico specifici, ad esempio gli elettori più giovani, per manipolarne le reazioni. Campagne che vengono utilizzate anche da Stati autoritari insieme a tattiche per ridurre lo spazio civico online e ostacolare l’organizzazione dei movimenti sociali, come la chiusura di Internet e delle reti di telefonia.
«Campagne sempre più disinformate»
Insomma, alla fine, come afferma Tony Roberts, ricercatore presso l’Institute of Development Studies e co-editore del volume in questione: «nel selvaggio west delle piattaforme di social media, i cittadini non possono più sempre credere a ciò che vedono». «Stiamo assistendo – ha aggiunto – a un preoccupante aumento del volume e della sofisticazione delle campagne di disinformazione digitale, aumento dovuto ai progressi nei big data e nel microtargeting, che consentono alle aziende stile Cambridge Analytica di orchestrare operazioni per sconvolgere la democrazia».
I risultati della ricerca vanno oltre le campagne elettorali per sollevare questioni più ampie. L’analisi ha infatti permesso di scoprire che le campagne di disinformazione digitale orchestrate ad hoc su temi specifici finiscono per distorcere i dibattiti – e quindi le scelte – su questioni delicate come le vaccinazioni, l’immigrazione e persino i diritti riproduttivi. I ricercatori che hanno lavorato a queste analisi raccomandano una serie di misure per aiutare a proteggere i cittadini dalla disinformazione digitale: dall’invito alle organizzazioni della società civile a formare alleanze per produrre informazioni affidabili, a quello di sostenere gli sforzi di verifica dei fatti e di alfabetizzazione digitale; ma anche l’invito ai media a garantire il controllo delle informazioni prima della pubblicazione e alle piattaforme social a intensificare la correzione delle informazioni, la moderazione dei contenuti e degli algoritmi che comprendono meglio le diverse lingue africane. Chissà se si è ancora in tempo. Quest’anno in Africa ci saranno 27 elezioni (di queste se ne sono già tenute due, alle isole Comore e in Senegal) e il timore è che la disinformazione digitale distorca ognuna di esse inquinando e alterando il dibattito democratico allo scopo di portare a casa il risultato voluto e, forse, in un certo qual modo estorto.