11 settembre 2001: le ricadute sull’Africa - Nigrizia
Armi, Conflitti e Terrorismo
Jihadismo e Torri gemelle
11 settembre 2001: le ricadute sull’Africa
Una panoramica dei contraccolpi che il continente ha sopportato in questi vent’anni. E che potrà subire dopo in ritorno dei talebani a Kabul. Il nesso tra mancato sviluppo e fondamentalismo
11 Settembre 2021
Articolo di Giulio Albanese
Tempo di lettura 4 minuti
11settembre
New York, 11 settembre 2001

Quanto è avvenuto l’11 settembre del 2001 ha avuto un forte impatto nel continente africano. La guerra scatenata dagli Usa contro i terroristi che distrussero le Twin Towers e colpirono il Pentagono, non ha interessato solo l’Asia Centrale e il Medioriente, ma ha anche coinvolto l’Africa, una delle macroregioni dove il jihadismo si è infiltrato, sortendo un effetto invasivo.

Il primo vero e proprio atto terroristico compiuto in Africa, di matrice islamista, risale al 1973, quando, la sera del 1° marzo, i militanti della fazione Settembre Nero, affiliata al movimento Fatah, occupò l’ambasciata saudita a Khartoum, in Sudan. Ma la presenza di cellule terroristiche islamiche nell’Africa Subsahariana divenne centrale nell’agenda internazionale a partire dalla fine degli anni Novanta, quando, il 7 agosto 1998, furono simultaneamente compiuti due attentati rivendicati da Osama bin Laden e dall’organizzazione da lui guidata, al-Qaida, nelle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in Kenya e Tanzania, con un bilancio complessivo di 223 morti (tra cui 12 cittadini statunitensi) e circa 4mila feriti.

Sta di fatto che dopo l’11 settembre, le milizie jihadiste, già presenti particolarmente nella fascia del Sahel e nel Corno d’Africa, hanno intensificato le loro attività. Emblematico è il caso della Somalia dove l’organizzazione jihadista al-Shabaab ancora oggi semina morte e distruzione. Questa formazione, che un tempo rappresentava l’ala radicale delle ex Corti islamiche somale, continua ad avere una componente legata al network di al-Qaida, un’operazione di franchising che le ha garantito visibilità sui media internazionali. Al contempo, però, si è insediato in Somalia il gruppo Stato islamico (Is) che ha avuto origine da una frangia dissidente di al-Shabaab, guidata dall’ideologo Abdulqadir Mumin. La forza combattente conta oltre 300 effettivi ed è composta da miliziani somali, ugandesi, kenyani e tanzaniani, che compongono il bacino somalo dei foreign fighters.

Le infiltrazioni jihadiste nell’Africa subsahariana – che oggi interessano, oltre alla Somalia, Burkina Faso, Niger, Mali, Nigeria, Ciad, Repubblica Centrafricana, il settore orientale dell’Rd Congo e il nord del Mozambico – sono un dato di fatto incontrovertibile, reso possibile soprattutto a causa della debolezza dei governi locali, dei finanziamenti erogati dalle Petromonarchie del Golfo in favore delle milizie islamiste e dell’acuirsi dell’esclusione sociale in molti paesi.

Una cosa è certa: quanto sta avvenendo in Afghanistan, con il ritorno al potere dei talebani, sta generando grande apprensione in Africa. Ad esempio, il presidente nigeriano Muhammadu Buhari, dalle colonne del Financial Times, ha osservato che il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan non deve essere interpretato come la fine della cosiddetta «guerra al terrore». La minaccia, secondo Buhari, si sta semplicemente spostando verso occidente, su una nuova linea di faglia, in Africa. Il timore del presidente nigeriano è che il nuovo corso afghano possa sortire un effetto incoraggiante per i gruppi jihadisti disseminati nel continente, rafforzando la loro resilienza e dunque il loro impegno in vista di un’ipotetica vittoria.

«Nonostante i crescenti attacchi in tutta l’Africa negli ultimi dieci anni, l’assistenza internazionale – ha sottolineato Buhari – non ha seguito il passo», con il risultato che «molte nazioni africane sono sopraffatte dall’incubo dell’insurrezione». Un passaggio interessante della riflessione del capo di stato nigeriano è quando afferma che «alla fine, gli africani non hanno bisogno di spade ma di vomeri per sconfiggere il terrore», sottolineando l’importanza degli investimenti stranieri e del supporto tecnologico e infrastrutturale che a suo avviso rappresentano il deterrente contro la povertà a favore del progresso. Si tratta di un aspetto importante nel senso che laddove vi è sottosviluppo, vi sono tutte le condizioni per affermare ogni genere di fondamentalismo.

Da rilevare che nel frattempo dall’Africa arriva una bella lezione in questi tempi di ristrettezze economiche imposte dalla pandemia. Infatti, il governo ugandese ha accettato di ospitare temporaneamente 2mila rifugiati afghani su richiesta degli Usa. L’Uganda, per inciso, accoglie già quasi un milione e mezzo di profughi.

Guardando, in termini generali allo scenario geopolitico internazionale, occorre considerare che le potenze limitrofe all’Afghanistan, vale a dire Turchia, Cina e Russia, sono presenti con molteplici interessi anche in Africa. Lo stesso vale per gli Stati Uniti e i suoi alleati che si sono ritirati dal multietnico paese dell’Asia centrale. È evidente che l’Africa rappresenta una grande opportunità per gli investitori internazionali, anche se il tema delle nuove polarità economiche e politiche presenti nel continente esige una decisa assunzione di responsabilità. Sono sempre più necessarie iniziative protese alla lotta contro la povertà, al progresso e alla pacificazione, il che per inciso significa anche una seria inversione di tendenza per quanto concerne il commercio delle armi.

 

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