2021: anno nero per la libertà di stampa - Nigrizia
I rapporti di Reporter senza Frontiere e Comitato per la protezione dei giornalisti
2021: anno nero per la libertà di stampa
Nell’anno che volge al termine si è registrato un aumento del 20% delle detenzioni di operatori dei media, rispetto al 2020. Un quarto delle quali in Africa. E crescono le detenzioni per crimini informatici. L'Egitto in maglia nera
27 Dicembre 2021
Articolo di Antonella Sinopoli
Tempo di lettura 7 minuti
Libertà di stampa
(Credit: lusakatimes.com/Wikipedia)

Ancora un anno difficile, il 2021, per la libertà di stampa. Per rendersene conto basta scorrere i recenti report pubblicati da Reporter senza Frontiere (Rsf) e dal Comitato per la protezione dei giornalisti (Commettee to Protect Journalists – Cpj). Numeri che, da un rapporto all’altro, in qualche modo differiscono (e questo dipende dalla modalità di raccolta dati) ma che comunque forniscono entrambi un quadro drammatico.

Secondo il censimento del Cpj, al momento ci sono nel mondo 293 giornalisti in carcere per motivi legati alla loro professione e uno su quattro è africano. Almeno 24 i giornalisti uccisi durante la copertura di eventi – ma di altri non si è riusciti a determinare la motivazione dell’omicidio -, otto dei quali sono africani.

Quasi il doppio invece (46) i giornalisti assassinati, secondo Rsf, numero che include quelli che sono rimasti uccisi non durante la copertura di un servizio ma per ritorsione e per toglierli dalla circolazione.

Sempre secondo Rsf – che registra anche i non professionisti e coloro che operano a vario titolo nel settore dei media, ad esempio cameramen – dietro le sbarre ci sono 488 giornalisti e operatori dei media, il 20% in più dello scorso anno. Una situazione – ha affermato l’ong – mai così grave dal 1995.

La situazione peggiore in Cina e in quei paesi dove ci sono stati colpi di Stato – come il Myanmar – che hanno esercitato gravi repressioni nei confronti di proteste interne – come la Bielorussia – e che, sempre di più sono espressione di un governo autoritario dove l’intolleranza verso la stampa è un elemento comune – si pensi alla Turchia, all’Arabia Saudita ma anche al Vietnam.

Inoltre, Rsf non ha mai registrato un numero così alto di giornaliste in carcere, con un totale di 60 attualmente detenute, un terzo (33%) in più rispetto allo scorso anno. È così che gli autocrati stanno mantenendo il loro potere, approfittando tra l’altro delle restrizioni e dell’isolamento dovuti alla pandemia.

Un anno, il 2021, in cui si è parlato molto di come difendersi dal Covid-19 o del cambiamento climatico ma in cui si sono moltiplicate le violazioni dei diritti umani – si pensi solo alle violenze sui migranti – e su chi, i giornalisti, queste violazioni vuole denunciare e testimoniare.

Almeno uno su quattro giornalisti in carcere è africano. Secondo il Cpj sono 75 i giornalisti africani mandati in galera da 12 governi del continente.

L’Egitto, dove si contano 25 giornalisti dietro le sbarre, è il peggior repressore dei media del continente, seguito dall’Eritrea (16), e dall’Etiopia, dove ufficialmente 9 giornalisti si trovano in prigione. Si parla solo di quelli accertati, e non, per esempio, degli “scomparsi” e il censimento non include, inoltre, quelli arrestati durante l’anno e poi rimessi in libertà. In Etiopia, in particolare, la repressione è legata alle leggi d’emergenza imposte dal governo per “gestire” la guerra civile nel Tigray.

Altri paesi, come il Rwanda (7 giornalisti in carcere) e il Camerun (6), stanno semplicemente continuando un modello di repressione della stampa che dura da anni, ha commentato l’organizzazione.

Per tornare all’Egitto, il paese del Nordafrica risulta terzo, dopo la Cina e il Myanmar, in questa lista di stati carcerieri di giornalisti. Tra i casi più eclatanti quello del fotoreporter Mahmoud Abou Zeid, noto come Shawkan, arrestato nel 2013 mentre seguiva gli scontri tra le forze di sicurezza egiziane e i sostenitori dell’ex presidente Mohamed Morsi. Secondo Human Rights Watch, in quell’occasione  i militari egiziani uccisero almeno 817 persone e ne ferirono molte altre nel tentativo di disperdere un sit-in.

Il professionista è stato tenuto in carcere per cinque anni. Nel 2018 un tribunale lo ha poi condannato a cinque anni di prigione (che tra l’altro aveva già scontato) con l’accusa di omicidio e di appartenenza ad un gruppo terroristico. Ma da quando è stato liberato, Zeid rimane “sotto osservazione” con l’ordine, dunque, di presentarsi a una stazione di polizia ogni giorno al tramonto. E ogni sera la polizia gli ordina di passare lì la notte.

Una situazione emblematica del disprezzo della libertà di stampa e dei più elementari diritti umani spesso mostrati dal governo di Abdel Fattah al-Sisi. Il caso di Patrick Zaki è una prova evidente di come le autorità egiziane utilizzino il regime di custodia cautelare presentando per esempio ulteriori accuse per estenderne il periodo fissato a due anni. In altri casi, addirittura, pongono condizioni al rilascio di coloro che hanno completato le loro condanne.

Per quanto riguarda l’Etiopia, numerosi sono i giornalisti arrestati nel paese dall’inizio della guerra civile tra le forze del governo federale e quelle guidate dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf). Il Cpj ha documentato numerose altre violazioni della libertà di stampa nel corso dell’anno e accusato di usare lo stato di emergenza per prendere di mira gli operatori dell’informazione. 

Sempre secondo il Cpj, almeno 17 giornalisti sono stati incarcerati con accuse di crimini informatici. In particolare in Benin, dove vige un draconiano Codice Digitale, approvato qualche anno fa, considerato come una delle più grandi limitazioni alla libertà di stampa e di espressione, e che consente di perseguire penalmente per contenuti pubblicati o distribuiti online. 

Ancora, per i casi più clamorosi, Rsf cita – tra i processi più lunghi – quello di Amadou Vamoulké in Camerun e di Ali Anouzla in Marocco. Il primo – scrive Rsf – conosce a memoria i quattro chilometri tra la sua cella e il tribunale penale speciale di Yaoundé. Fino ad oggi, dal suo arresto nel 2016, l’ex direttore di Camerun RadioTelevisione (Crtv) ha fatto questo percorso più di ottanta volte per altrettante audizioni.  

In un processo kafkiano che si trascina per mancanza di prove, è accusato di aver stornato fondi statali sul conto dell’emittente radiotelevisiva statale che ha diretto per un decennio. Vamoulké sta subendo una detenzione preventiva da oltre cinque anni.  

Anche in Marocco processi e accertamento delle prove interminabili sono abbastanza comuni. Sebbene non sia stato detenuto durante il processo, Ali Anouzla, redattore del sito web di notizie Lakome, sta aspettando di conoscere il suo destino da otto anni.  

Nominato “eroe dell’informazione” da Rsf nel 2014, sul suo capo pende una possibile condanna a trent’anni di carcere. Nel 2013 gli sono state contestate accuse di “sostegno materiale al terrorismo”, “giustificazione del terrorismo” e “incitamento a commettere atti di terrorismo”.  

C’è poi il caso del giornalista e storico franco-marocchino, Maati Monjib condannato a un anno di carcere da un tribunale di Rabat nel gennaio 2021. Le accuse, che lo storico assicura essere inventate, sono “frode” e di “minare l’integrità interna dello Stato”. Il caso, iniziato più di cinque anni fa e poi oggetto di un lungo processo di appello, ha visto udienze rinviate più di 20 volte.  

Il report di Rsf ricorda anche il giornalista francese Olivier Dubois, unico reporter straniero ad essere rapito quest’anno e tenuto in ostaggio in Mali dall’8 aprile scorso.  

Vanno citati poi i casi dei “record del periodo di detenzione”. Formula usata per dire di individui che stanno praticamente trascorrendo la vita in carcere. Dawit Isaak, giornalista svedese-eritreo, e due colleghi eritrei, Seyoum Tsehaye e Temesgen Gebreyesus, sono detenuti da vent’anni. Erano stati arrestati nel settembre 2001.  

In quel tempo l’attenzione del mondo era rivolta all’attentato alle Torri Gemelle e il presidente Isaias Afeworki – scrive Reporter senza Frontiere – ha approfittato della “disattenzione” dell’opinione pubblica globale per trasformare il suo paese in una dittatura e bandire del tutto i media indipendenti. Afeworki è al potere dal 1993.  

Rsf documenta che Dawit Isaak è sottoposto a condizioni carcerarie spaventose, non gli è mai stato permesso di vedere la sua famiglia o un avvocato. Posto in isolamento, spesso ammanettato, esposto al caldo, è stato ricoverato più volte, a volte in ospedali psichiatrici.  Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ad agosto di quest’anno ha riferito che, secondo una “fonte credibile”, l’uomo era ancora vivo nel settembre 2020. Una testimonianza che ha squarciato un silenzio che durava dal 2010.  

Infine, un confronto a livello globale evidenzia che negli ultimi 5 anni i tre quarti dei giornalisti uccisi riguardano solo 10 paesi: Messico e Afghanistan (47), Siria (42), Yemen e India (18), Iraq (17), Pakistan (16), Filippine (15), Somalia (13), Colombia (9). Nel resto del mondo i giornalisti assassinati sono stati 77.

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